Leoni d’oro, leoni da tastiera e leoni per agnelli

È il leone il protagonista di questa settimana. Il Leone di Venezia con la dichiarazione d'amore di Benigni. I leoni da tastiera che parlano di virus. La parte del leone svolta da Mario Draghi sull'obbligo dei vaccini

Franco Fiorito

Ulisse della Politica

È piaciuta a tutti, me compreso, la dedica alla moglie di Roberto Benigni nel discorso celebrativo alla consegna del Leone d’oro alla carriera al festival del cinema di Venezia di quest’anno al comico toscano.

Un pensiero alla mia attrice prediletta, Nicoletta Braschi, alla quale non posso nemmeno dedicare questo premio perché è suo: è tuo, ti appartiene.”

Per poi continuare: “Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni . Produzioni, interpretazioni. Ma come si fa a misurare il tempo in film? Io conosco solo una maniera per misurare il tempo: con te o senza di te.

Ce lo possiamo dividere: io prendo la coda, il resto è tuo. Le ali, soprattutto, perché se qualcosa ha preso il volo nel lavoro che ho fatto è grazie a te. È stato proprio un amore a prima vista, anzi a ultima vista. O meglio, a eterna vista.”

Tutte le donne italiane in sollucchero, in particolare le mogli, hanno apprezzato la dedica convinta ed amorosa dell’attore premiato che ha avuto anche il pregio di palesare in maniera inequivocabile ciò che da secoli, solo per vezzo da maschi italici, ci ostiniamo malcelatamente a negare cioè che in Italia comandano le donne, in particolare le mogli.

Chi comanda in casa

Roberto Benigni (Foto: Leonardo Puccini / Imagoeconomica)

Basterebbe ricordare che l’etimologia di donna viene da “domina” cioè signora, padrona. Ed i latini mica dicevano cose a vanvera.

Ci cono ancora esemplari di maschio italiano che fingono di resistere al potere muliebre ma per l’appunto fingono, io per l’amor di Dio ho abdicato subito al comando e vivo una vita serena. Anche il leone, simbolo dorato del premio veneziano, lo sa. Si è fatto crescere la criniera per darsi un tono ma tutti sanno che comandano le leonesse. Bastano un paio di documentari di National Geografic per convincersene.

Così Benigni ha riservato per se solo la coda del leone, fortunatamente non altre parti più anatomicamente imbarazzanti in segno di rispetto e riconoscimento verso l’amata consorte.

In realtà però le parole non sono propriamente di Benigni che da attore consumato le ha ben interpretate nel discorso facendole sue.

La frase: “È stato proprio un amore a prima vista, anzi a ultima vista. O meglio, a eterna vista”, in effetti, è simile a un passo contenuto nel romanzo Lolita di Nabokov. Lo troviamo a pagina 29: “Non potevo uccidere lei, naturalmente, come ha pensato qualcuno. Vedete, io l’amavo. Era amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista.

E quella che ha colpito di più sul “misurare il tempo” è contenuta in una delle mie poesie preferite di Borges.

L’amore di Borges

“È L’Amore” contenuta nella raccolta di poesie L’Oro delle Tigri pubblicata da Jorge Luis Borges nel 1974. Per curiosa assonanza ”oro delle tigri” e “leone d’oro” sempre di aurei felini si tratta. Ed è bellissima come quasi tutti gli scritti di Borges per questo ve la vorrei citare intera e recita così:

È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire.

Crescono le mura delle sue carceri, come in un incubo atroce.

La bella maschera è cambiata, ma come sempre è l’unica.

A cosa mi serviranno i miei talismani:

l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione,

le gallerie della Biblioteca, le cose comuni,

le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno?

Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.

È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce,

l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo.

È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili.

C’è un angolo di strada dove non oso passare.

Il nome di una donna mi denuncia.

Mi fa male una donna in tutto il corpo”.

Struggente e meravigliosa com’è non poteva non colpire citata con arte ed esperienza in un palcoscenico unico come Venezia.

Nel segno del Duce

Mussolini e Hitler visitano la Biennale di Venezia

Nonostante l’estrazione politica di Benigni sarebbe forse piaciuta pure al Duce che il festival di Venezia lo ha istituito nel ’32 ispirato dal conte Giuseppe Volpi presidente della Biennale di Venezia e che da allora continua ad essere un vanto per l’arte. In particolare quella cinematografica italiana.

Scelsero ovviamente il leone come premio omologo all’effigie della città di Venezia che si vanta di averlo come simbolo cittadino. Ed era un epoca in cui il leone animale fiero ed indomito veniva ancora associato alla forza ed al coraggio.

Oggi tristemente invece la citazione più diffusa è quella del famigerato leone da tastiera.

In genere identificato con un webete (la definizione è di Mentana) in canottiera e mutandoni imprigionato in una vita grama che comunque attraverso il democratico strumento dei social pontifica su tutti gli argomenti dello scibile umano alternando pareri scientifici inoppugnabili ad insulti in quantità coperto dal comodo anonimato.

Il compianto Umberto Eco  aveva già individuato il problema anni fa quando esemplarmente dichiarò: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

Come non concordare con le nobili parole del filosofo di Alessandria. Come non riportarle alla quotidianità che ci circonda. In particolare in questi tempi di pandemia e virus dove ognuno ha potuto formare una propria opinione trasformarla immediatamente in legge per poi sputare sentenze in ogni dove. Siamo diventati una nazione di virologi ed all’occorrenza di tutte le altre professionalità necessarie al dibattito del momento.

Abbiamo avuto solo un piccolo periodo di sospensione nel periodo degli europei di calcio dove siamo tornati tutti al nostro ruolo naturale di commissari tecnici della nazionale, che abbiamo abusivamente esercitato per decenni, come natura e tradizione italiana.

L’ora del vaccino obbligatorio

Mario Draghi

Oggi per esempio il leone da tastiera dopo l’annuncio del prossimo obbligo vaccinale sentenziato in conferenza stampa dal premier Draghi attraversa la fase virologo-costituzionalista. Esprimendo giudizi costituzionali meglio di Mario Morelli o dei suoi predecessori.

Si perché il Presidente del Consiglio così “en passant” ha annunciato l’obbligo vaccinale, ovviamente senza nemmeno accennarlo al parlamento italiano ormai ridotto al ruolo di mappina o forse neanche ai Partiti che compongono la maggioranza.

Una cosetta così, leggera. L’ha toccata piano come diceva la Gialappas.

Si è presentato con quella solita faccia ed espressione che oscillano tra Carletto il camaleonte della pubblicità dei sofficini ed il cartone americano Beavis and Butt-head ed ha sganciato la bomba. Non era nemmeno tema della conferenza. L’argomento è uscito con la solita tecnica del giornalista compiacente che fa la domanda introduttiva preparando la stoccata del premier. Una costante oramai.

E la domanda pressappoco era: “Per il vaccino contro il Covid scatterà l’obbligo, quando verrà dichiarato da Ema e Aifa non più farmaco emergenziale ma ordinario, e si va anche verso l’introduzione della terza dose?”. Con due secchi “sì”, il premier Mario Draghi ha risposto sul tema, delineando questo scenario e anticipando poi l’estensione del Green pass, alla luce di una campagna vaccinale che è al 69% e, da programma, punta a coprire l’80% della popolazione entro la fine di settembre.

Solo nel Turkmenistan

Travaglio e Fiorito per una volta d’accordo

Poi in quelle ore è successa una cosa incredibile a dirsi. Leggendolo sono stato d’accordo con un editoriale di Marco Travaglio. Lo scrivo ma cortesemente non divulgatelo troppo. Pubblicato sul Fatto criticava l’obbligo vaccinale. Per il quale io ho lo stesso giudizio che Fantozzi diede della corazzata Potemkin. Intendiamoci, sono assolutamente favorevole al vaccino ed alla sua massima diffusione. Ma l’obbligo mi fa un po’ Orwell.

La stessa cosa l’ha scritta in caratteri simili Maurizio Belpietro su La Verità. Due direttori prima fieramente avversari e oggi uniti nella lotta all’obbligo vaccinale. Anche se bisogna specificare che Il Fatto, nostalgico del premierato del miracolato Giuseppe Conte, è praticamente contro ogni sillaba che esce dalla bocca dell’attuale presidente del Consiglio. In ogni caso colpisce che anche Marco Travaglio utilizzi l’argomento di Salvini per opporsi all’obbligo.

Esiste solo nel Turkmenistan! Come Il Fatto ci ricorda in prima pagina. E in nessun Paese d’Europa. E a leggere l’editoriale di Maurizio Belpietro l’identità di vedute appare ancora più evidente. “I giornali e tutti i sinceri democratici – scrive Belpietro – esultano perché presto Mario Draghi ci avvicinerà a Paesi come il Turkmenistan, l’Arabia e l’Indonesia. Segnalo che nel primo vige una dittatura, nel secondo anche, nel terzo invece c’è una repubblica che si regge sui precetti dell’islam. Ma perché il premier ci avvicinerà a questi begli esempi di democrazia? Perché tutti e tre sono i soli al mondo ad aver imposto ai loro cittadini l’obbligo di vaccinarsi contro il Covid”.

Travaglio scaglia le invece le sue frecce contro Draghi fin dalle prime battute del suo articolo di fondo: “Rientrato dalle vacanze con la solita arietta da Maria Antonietta, Mario Draghi ha comunicato alla Nazione che “si va verso l’obbligo vaccinale”. Cosa l’abbia indotto a un annuncio così dirompente e a una scelta unica al mondo, mai discussa in Parlamento, in Cdm e nel Paese, anzi sempre esclusa da tutti (a parte qualche isolato esaltato), non è dato sapere… Persino il ministro Speranza, che passa per un ultrà rigorista, ha sempre escluso l’obbligo generalizzato. E non solo perché i vaccini restano un trattamento sanitario personalizzato sul singolo paziente. Ma anche perché uno Stato liberale non impone un Tso a milioni di renitenti

Obiettivo 120%

Roberto Speranza

E non mi sono sentito di dargli torto, nonostante mi succede di dargliene praticamente ad ogni parola proferita. Mi sono anche chiesto Travaglio inizia a pensarla come me: significa che sto sbagliando tutto?

Che poi una nota logica mi ha colpito della conferenza di Draghi. Poco prima aveva esaltato il dato ritenuto il migliore in Europa sulle vaccinazioni che presto arriveranno all’ ottanta percento, un dato molto alto direi. Ma la successiva dichiarazione sull’obbligo lo indebolisce come quasi non valesse veramente. Così come la terza dose con la domanda che si fanno tutti: ma se non ne funzionano due perché ne dovrebbero funzionare tre?

Qualcuno ci ha scherzato su dicendo:  l’obiettivo del governo è vaccinare il 90% ad agosto era l’80 a luglio il 70. Per natale l’obiettivo sarà pari al 120%, raggiungibile solo andando a vaccinare a forza gli albanesi.

Leoni per agnelli

Comunque vada tra leoni d’oro o da tastiera il nobile felino ha dominato meritatamente gli argomenti settimanali tanto che alla fine mi viene da citare un film molto bello. 

Leoni per agnelli (Lions for Lambs) è un film del 2007 diretto da Robert Redford. Il titolo è una metafora usata per descrivere polemicamente il concetto di eroici soldati agli ordini di comandanti inetti. Viene riportata dal personaggio di Redford, che ricorda un comandante tedesco, il quale lodava le gesta dei soldati inglesi, ma disprezzava la loro leadership “Mai visti simili leoni comandati da simili agnelli“.

Non so se sia aderente alla situazione che viviamo. Spero di no ma mi è tornato in mente quando fra le tante cose che girano sui social l’altro giorno me ne è arrivata una con una beata ed ignara pecorella in primo piano con sotto scritto: “L’immunità no ma il gregge lo abbiamo raggiunto”.

Ma l’ho cancellata immediatamente per il terrore che alla fine, io che mi sono sempre sentito un leone, mi convincessi che fosse vero.

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