L’equivoco di un’Italia che contro i migranti ha bisogno di muri

Quella dei muri per difendere l'Italia è una mistica farlocca. Non dai migranti almeno. Che stando ai numeri sono un nemico di comodo. Con il quale far credere che i problemi vengano da fuori. Mentre stanno dentro i confini

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Diciamolo subito ché se il ragionamento filava già prima, chi lo ha riesumato gli ha dato nuovo e benedetto vigore: ha fatto benissimo Matteo Renzi a sottolineare in Senato che il “genio” italiano non è quello del respingimento e della difesa dei confini attraverso i muri, ma abita tutto nella mistica attiva del salvataggio.

Renzi, che è un furbo di tre cotte e fa bene ad esserlo, in aula ha citato Salvatore Todaro, comandante sommergibilista della Regia Marina in servizio negli anni del Fascismo. Che per missione affondava (benissimo) navi nemiche e per vocazione raccoglieva i naufraghi che il suo dovere gli aveva imposto di sperdere in mare.

La contraddizione dei propri totem

Pier Francesco Favino nei panni del comandante Salvatore Todaro sul set del film in uscita

Insomma, con l’upgrade della partecipazione attiva al dolore che poi andava sanato Renzi si è messo in “saccoccia” lo zoccolo duro di un governo che ha una trazione politica e identitaria molto forte. E gli ha dimostrato che si può cadere in contraddizione esattamente sui propri totem.

La questione merita un approfondimento al di là della legittima strumentalizzazione politica che un oppositore senziente e scafato può fare alla rotta del governo Meloni. Il problema è più ampio, più ampio e più ricco di equivoci. Il primo di essi risale proprio al periodo in cui, con l’arrivo del liberismo di centrodestra e di scommesse economiche per lo più perse a tavolino, in Italia nacque una linea di pensiero che pian piano fece breccia nel sentire comune. Fino a diventare parte farlocca dello spirito della Nazione.

Fu quella per cui l’Italia avesse bisogno di difendersi dal “fuori”, da tutto ciò che c’era e da tutti coloro che da fuori provenivano, dentro andava tutto bene o benino ma il “fuori” ci avrebbe fatti crashare. Ad essere sbagliato, in dolo e non in colpa si badi, era il meccanismo con cui questo distillato di pochezza umana venne presentato come ineluttabile Necessità Storica. In che modo? Semplicemente proiettando fuori i guai di dentro e trovando un capro espiatorio comodo e silente per i dolori di una Nazione in cui la politica ha sempre fatto il suo dovere a metà.

I muri contro il nemico comodo

La celebre foto dell’agenzia Epa con la neonata siriana che gattona al confine turco con Grecia e Bulgaria (Foto © Epa)

L’altra metà è da sempre andata spersa in burocrazia, tatticismo, connivenze, indecisione, alternanza schizofrenica di progetti, reset improvvisi e nuove sgroppate in avanti, leggi elettorali a mazzi, scandali, ricerca del consenso e finzione operativa. Sono tutte cose che noi italiani riteniamo imperdonabili fin quando una di esse non torna comoda a noi. Allora tacciamo. Corriamo sui social e corriamo a scrivere che “questi ci rubano il lavoro”.

Cosa bisognava fare allora? Trovare un nemico, schiaffarlo in una Nemesi e far diventare entrambi punto di sfogo di un popolo. Che via via i social emergenti andavano rincoglionendo sempre più e sempre peggio nel nome di un analfabetismo funzionale e funzionante alla bisogna. Si puntò molto sulla trazione criminogena degli ingressi indiscriminati, in parte vera ma per nulla sistemica. Lo si fece anche quando le statistiche dicevano che a commettere reati erano tutti e che il buon senso suggeriva come in ogni categoria vi fossero criminali.

Poi però arrivarono i casi scuola che ci consegnava la cronaca, tornata regina morbosa del mainstream assieme al lerciume gossip. E contro la cronaca perdi subito e tanto, perché l’indignazione per un delitto terribile è il carburante più forte per l’odio di categoria. O quanto meno per la cultura sottile della repulsione. Gli italiani iniziarono a perdere di vista quella mistica radicata per cui, a torto o a ragione, noi siamo sempre stati conosciuti come quelli “miti” che tendenzialmente non hanno nessuno in particolare sulla strozza, quelli che invidiano i francesi che “quando si incazzano…”.

Quelli dell’Armata sagapò

Il celebre film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, Oscar 1992

Durante la Seconda Guerra Mondiale in Grecia, dove bazzicammo poco e male nel ‘41, ci chiamavano non a caso “l’Armata sagapò”, i soldati che “voglio bene”, che amano le popolazioni delle terre invase tanto da farsi voler bene perfino da chi gli hai sfondato la porta di casa col mitra spianato. Ovviamente anche quella era una mistica falsa, la guerra è un casino barbaro, il Fascismo imponeva violenza e in mezzo agli italiani come in mezzo al genere umano ci sono fiori di bruti, ma il dato resta. Ed è quello per cui noi non odiamo se non quando l’odio ci bussa a casa. O quando all’odio veniamo addestrati per anni come i molossi barzotti che giocano coi bambini ma sbranano gli estranei.

E l’equivoco sta tutto là. Un equivoco che non serviva neanche che ci ricordasse Matteo Renzi, o forse si. Perché se per anni ci hanno insegnato ad odiare non è detto che quell’insegnamento abbia fatto del tutto centro, e a volte basta usare un po’ di coraggio per strappar via la maschera e far prendere aria e luce al volto.
Ed accogliere, e fare leggi umane, sapendo che i nostri guai sono altri e che il rigore del “Cave canem” non ce li toglierà dal groppone.

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