Lo spirito di Norcia. Come i benedettini ricostruirono l’Occidente (di V. Macioce)

Impegnati nella realizzazione del festival delle Storie 2018, Vittorio Macioce e la sua straordinaria penna con la quale scrive i suoi articoli senza tempo. Questo racconta in maniera impareggiabile di come Benedetto rivoluzionò l'Occidente

Vittorio Macioce

Il Giornale - Caporedattore

Pietra su pietra. Ancora una volta con le mani nelle macerie, con la fatica, con l’ingegno, con la speranza, perché crollano i muri ma non le idee, non ciò che sei, senza maledire il cielo, perché tanto è inutile, ma come Giobbe resistere a ogni sventura e ricominciare.

Si chiama fede o orgoglio o antica cocciutaggine di chi si porta nel dna mille e più di mille anni di cadute e resurrezioni, come il pugile che sa che la sconfitta non è cadere ma non rialzarsi mai. Quando padre Bruno Marin solleva la testa davanti alla basilica di San Benedetto a Norcia, a ciò che resta, indica esattamente questo. I benedettini custodiscono lo spirito e il destino di queste terre, di una civiltà, di quella che in qualche modo possiamo chiamare Europa. Non come continente. Non come ultra Stato. Non come legge, potere, denaro o burocrazia. Neppure solamente come religione.

È qualcosa di più intimo e umano. È il nostro sguardo sul mondo.

 

Non è un orizzonte sicuro quello dove si ritrova a vivere Benedetto da Norcia. Sono passati cinquecento anni dalla nascita di Cristo. Roma da tempo non è più un impero. Non c’è equilibrio. Non c’è legge. Non c’è una morale. Il futuro non è di questo mondo e ci si affanna a sopravvivere, con questa penisola che è un incrocio di genti che da ogni valico o porto passano e razziano perché così è la vita.

Non c’è un posto sicuro e dove un tempo c’era il potere ora c’è solo deriva umana e corruzione.

Quella di Benedetto è una fuga, verso terre di frontiera, lontane, periferiche. Fuga da Roma per lo schifo che si respira. Fuga dal rifugio di Subiaco, per l’invidia di qualche mediocre, fuga dal mondo.

Ricostruire. Ricostruire un passato e un futuro. Dove? In alto. Sulla cima di un monte. Montecassino.

L’idea è di mettere insieme una comunità di individui di buona volontà, dove si prega e si lavora e si ritrova se stessi. E qui arriviamo alla famosa Regola. Quello di Benedetto è un progetto, una visione, un programma di vita. È un consiglio per mettere un po’ di ordine al caos. È un modo per ricominciare. Sono parole su carta che fissano dei punti, scandiscono la giornata. La parte finale, una sorta di post scriptum, è una confessione di umiltà e saggezza. Non è un’utopia. È, scrive Benedetto, un punto di partenza.

Quella Regola, vista con gli occhi del 2018, assomiglia a un software open source, un programma aperto, senza diritto d’autore, che ognuno può modificare e adattare alle proprie esigenze. Ed è per questo che sarà virale.

Benedetto, che forse non era neppure prete, non crea un ordine rigido. Ogni comunità si organizza come meglio crede e non deve per forza fare capo all’abazia madre.

 

La Regola viene così riformata e ogni volta si adatta ai tempi e ai luoghi. I benedettini diventano una confederazione. Cluny, che anticipa la vocazione francese al centralismo, è più gerarchica e rigida. È un centro di potere, magnificente e lussuoso. Ognuno comunque sceglie la propria strada.

Austeri e spogli e tanto lavoro per i cistercensi. Solitudine per i camaldolesi e i silvestrini. Senso artistico per gli olivetani e i cassinesi. E poiché S. Benedetto nella sua regola non determina di quale colore debba essere l’abito monastico, i monaci vestirono di bianco (camaldolesi e olivetani) o di bianco e nero (cistercensi), o adottarono un colore intermedio, che subì varie sfumature (silvestrini) fino a divenire tutto nero (vallombrosani).

È un’Europa che all’interno della Regola si ritaglia un abito su misura.

 

I monasteri sono luoghi dello spirito, ma si incarnano nella storia come crocicchi di arti, mestieri, saperi e creatività. Sono punti di partenza che si attraggono e generano ricchezza e futuro. Il lavoro degli amanuensi recupera la cultura classica e la mette in rete.

È, anche qui, una sorta di Google. I benedettini inventano l’orologio meccanico. Non è solo una questione tecnologica. È molto di più, perché cambia la percezione mentale.

Sono loro a reintrodurre la concezione romana di «ora». Ogni ora ha il suo dovere e ogni dovere scandisce la giornata. I monaci contano il rapporto con Dio, ma quando questo concetto finisce nella testa dei mercanti getta il seme del capitalismo.

L’ora circolare delle fede diventa ora lineare per chi fa impresa. Jacques Le Goff e Reinhard Bendix raccontano il monaco benedettino come il primo professionista della civiltà occidentale.

Le innovazioni idrauliche e la rotazione delle colture strappano la storia e valgono come le rivoluzioni industriali o il capitalismo 4.0. E in più ci hanno regalato il pentagramma e lo champagne. Vi dice nulla il monaco Dom Perignon?

 

I benedettini ridisegnano la mappa del pensiero. E lo fanno con una fuga dal presente, con una mossa laterale, spiazzante, come chi intuisce un corridoio invisibile dove immaginare il futuro. Oltre le macerie.