Lo sport, una guerra senza gli spari

Il potere evocativo dello Sport. Che crea nazioni inesistenti. Unisce e contrappone al di là dei con fini geografici. E non è un fenomeno dei nostri giorni. Ma ben più antico

Franco Fiorito

Ulisse della Politica

Raramente capiterà una domenica come quella odierna dove sportivi italiani si contenderanno due tra i più prestigiosi titoli dello sport. Il tennista Berrettini primo italiano nella storia in finale nel torneo di Wimbledon. E la nazionale italiana finalista negli europei di calcio. 

E come spesso è successo nella nostra storia a momenti di difficoltà della nostra nazione fanno da contraltare momenti sportivi che come un improvviso e taumaturgico sollievo fanno risalire l’umore ed il sentimento del Paese ridotto spesso ai minimi termini da disagi sociali, economici o come in questo periodo sanitari.

Si ha la netta sensazione che il nostro sport sia sempre un passo avanti alle sorti nazionali, che viva dell’italico genio e passione regalandoci momenti indimenticabili e che cancellano di un colpo tutte le delusioni e gli affanni che ci circondano.

Sport è politica

Lebron James

È per questo che lo sport nelle sue varie forme è stato sempre, dagli albori della civiltà un potentissimo mezzo politico. E l’intreccio tra sport e politica ha percorso i secoli fino ad arrivare ai giorni nostri.

Sbaglia infatti chi cita come politicizzazione solo quella dell’ultimo secolo, legandola spesso alle grandi dittature ed ai regimi totalitari dove lo sport ha avuto un enorme ruolo propagandistico. Lo sport di oggi è la riedizione riveduta ed aggiornata dei giochi romani dei panem et circenses, delle prime olimpiadi. Ha in nuce sempre lo stessa radice il controllo, o almeno il tentativo di esso, dell’umore delle masse.

Certo i ruoli sono cambiati a volte addirittura invertiti ma il sommo potere sociale della competizione, della rappresentanza, dell’identità e dell’adrenalina rimangono intatti.

Può succedere forse oggi più spesso che un atleta sbeffeggi un capo di stato piuttosto che il contrario, basti vedere Lebron James con il presidente Trump, ma invertendo i fattori il prodotto non cambia. Lo sport è un vettore di massa potentissimo. Soprattutto in piena civiltà dell’immagine. Ed è il più grande processo di identificazione collettiva rimasto ai giorni nostri.

Sono i principi fondamentali stessi su cui si basa lo sport moderno, la struttura basata su regole e la logica competitiva, a promuovere una sua forte interazione con le identità nazionali e locali.

Sport e tradizione

La Nazionle Italiana di calcio nel 1936

Per definizione gli sport moderni devono fondarsi, piuttosto che su mutevoli tradizioni locali, su regole universalmente riconosciute che possano essere apprese da chiunque in modo che ciascuna disciplina possa essere praticata ovunque, in ogni ambito culturale.

Durante l’attività sportiva culture diverse entrano in contatto, cosicché inevitabilmente lo sport diventa veicolo di presentazione di caratterizzazioni locali e nazionali ad altre comunità. I protagonisti delle competizioni sportive, siano individui o squadre, in qualche modo rappresentano entità geopolitiche, vale a dire popolazioni di porzioni di territorio che siano città, regioni, Stati, che gareggiando contro altre località o nazioni sviluppano un senso di identificazione collettiva più forte.

Roland Robertson infatti ha coniato il termine “glocalization” per descrivere il modo in cui pratiche e idee diffuse a livello planetario siano state assorbite in specifici contesti culturali. E lo sport di massa ne è l’esempio principe. I sociologi, seguendo la traccia indicata da Emile Durkheim, hanno cercato di analizzare come gli eventi sportivi siano esempi di “rituali” attraverso i quali specifiche comunità entrano in contatto e allacciano legami culturali, e come lo sport fornisca a ogni comunità una serie di riti attraverso cui può evidenziare la sua identità e comunicare la sua unità a un pubblico locale, nazionale o internazionale.

Come le feste religiose, i rituali dello sport permettono a ciascuna collettività di celebrare sé stessa, rafforzando il sentimento di identità condivisa tra partecipanti e spettatori. Il simbolismo è la chiave di tutto. I singoli atleti incarnano, e rappresentano, la località o la nazione, sono letteralmente avvolti nei suoi colori. Non è certo celata infatti la nostra ambizione di avvolgere stasera l’Europa di un gioioso azzurro. Un azzurro che fa battere il cuore degli italiani siano essi residenti in patria o sparsi nei vari punti del mondo.

La comunità immaginaria

Un semplice simbolismo lineare, un pallone, una maglietta azzurra ed il tifo, travalica ogni confine e sfida in velocità ed intensità qualsiasi altra passione ivi compresa quella politica, come una grande comunità. Non più racchiusa in dei confini ma immaginaria, emozionale e quindi molto più potente.

Nino Manfredi emigrante in Pane e Cioccolata

Gli studiosi di etnie e di nazionalismi hanno da sempre riservato grande attenzione al concetto di “Comunità immaginaria” espresso da Benedict Anderson per descrivere il processo per cui persone che vivono in parti diverse di una nazione o del mondo hanno un (immaginario) senso di identificazione con gli altri. Anche se tale comunità non si esplicherà mai in incontri diretti tra questi differenti gruppi. 

Gli effetti a lungo termine delle migrazioni mostrano come la forza della comunità immaginaria tenda sempre più a estendersi oltre il livello nazionale. Lo sport fornisce un fondamentale spazio simbolico perché questo tipo di sentimenti si instauri e si riproduca. In altre parole, guardando e applaudendo i calciatori e i tennisti italiani, una forma di comunità immaginaria si forma, per esempio, tra italiani nati e cresciuti a Roma e italo-americani di terza generazione nati e vissuti nella Little Italy di New York.

Per alcuni gruppi etnici, la comunità immaginaria è quasi interamente disseminata nel mondo e quindi priva di qualsiasi riferimento territoriale. Sebbene la ‘nazionale’ nello sport rappresenti sempre ufficialmente uno Stato specifico, gran parte dei giocatori e dei sostenitori della squadra spesso vanta solo una remota connessione a quell’entità geopolitica. Per esempio, la Repubblica d’Irlanda ha meno di quattro milioni di abitanti, ma nell’America Settentrionale oltre cinquanta milioni di persone dichiarano di avere un legame ancestrale con la razza irlandese. E lo stesso certamente anche in proporzioni maggiori si può dire dell’Italia. 

La partita tra Comunità

Dunque stasera non sarà solo uno scontro tra nazionali ma anche tre le rispettive comunità immaginarie di riferimento. E diciamocelo anche quelle britanniche come proporzioni non scherzano essendo la Gran Bretagna uno dei paesi coloniali più attivi al mondo con il suo Commonwealth.

Mai sottovalutare gli italiani comunque che, come proporzione di tifo, in questi europei ci hanno sempre stupito regalandoci stadi sempre molto indirizzati nel tifo verso la nostra nazionale.

Ma ci sarà un elemento in più. Casuale o meno stasera si giocherà nello stadio simbolo della perfida Albione, il mitico Wembley. Non l’originale ma comunque evocatore di straordinari picchi di tifo british tanto da diventare un simbolo dello sport d’oltremanica.

Il fattore stadio

Ecco, lo stadio. Fatte le debite proporzioni un arena moderna un luogo simbolo del tifo, dello sport e del suo potere aggregante ed evocativo. Avremmo sognato una finale all’Olimpico di Roma ma no, come in una bolgia, fronteggeremo il nemico, ops l’avversario, è più politicamente corretto, nella sua arena.

Ed il luogo dello scontro sportivo è fondamentale. Un moltiplicatore dell’azione evocativa dello sport. Una sorgente importante di identificazione con la comunità è rappresentata proprio dai campi di gioco. A questo proposito John Bale ha usato il termine “topofilia” per descrivere l’intenso senso di attaccamento emotivo che gli individui e le comunità possono avere verso particolari scenari sportivi.

Il simbolismo poi è particolarmente forte quando lo stadio è collocato al centro della città, costituendo un elemento di spicco nella geografia cittadina e nel suo panorama, e se la gente del luogo ha con l’impianto e con le persone che vi lavorano un contatto quotidiano. Inoltre è rilevante che lo stadio disponga di caratteristiche architettoniche peculiari che permettano di differenziarlo da tutti gli altri.

Lo stadio Stirpe

Ancora, uno stadio acquisisce un forte valore simbolico se ha alle spalle una lunga storia che consenta di collegare gli spettatori attuali con le generazioni precedenti.

Lo stadio ‘Luigi Ferraris‘ di Genova (per tutti Marassi) è un esempio lampante e molto utilizzato di come uno stile architettonico unico, una posizione centrale e una lunga storia si combinino nel creare il fascino di un luogo dedicato allo sport che simboleggia la città e più ampiamente la regione ligure. Al contrario, impianti ultramoderni e in posizione decentrata, anche se presentano la comodità di essere facilmente raggiungibili e sono funzionali e razionalmente organizzati, risultano privi della capacità di coinvolgere emotivamente il pubblico.

L’emozione non nasce a tavolino

Nel nostro piccolo potremmo contribuire a tali esempi con lo storico impianto Matusa di Frosinone che seppur rimpiazzato da un bellissimo e moderno stadio ha lasciato nei tifosi un ricordo indelebile e delle emozioni indimenticabili, forse ineguagliabili. 

Perché l’emozione non si costruisce a tavolino è un complesso intreccio tra sentimento e chimica che nasce e si propaga con strumenti inaspettati ed a volte imprevedibili, incontrollabili. I latini parlerebbero di genius loci. Che, certo, viene usato riguardo a luoghi di patrimonio culturale ma come non adattarlo alla grande forma espressiva che è lo sport stesso.

Non basta solo la forza di un luogo, ognuno nella propria cultura vede il proprio stile la propria cifra distintiva e lo sport ne viene permeato. E tutti gli sport con diverse intensità vengono attraversati da questa sottile linea rossa.

É soprattutto il calcio a fornire numerosi esempi di connessioni tra identità nazionali e particolari stili di gioco. La cultura industriale della classe operaia scozzese costituì il contesto ideale per la creazione del passing game, basato su un serrato lavoro di squadra. Il calcio tedesco è stato a lungo famoso per la solidità e la concretezza nel produrre risultati, mentre il gioco italiano, come metafora della società, è caratterizzato da talenti brillanti, alieni da un tatticismo eccessivamente sistematico.

L’antropologo Eduardo Archetti ha analizzato come in Argentina lo stile “criollo” dia particolare risalto ai giocatori dotati di tecnica raffinata e di dribbling, e sia un riflesso di aspetti chiave della cultura nazionale. In Brasile il calcio è più ballerino e incline a improvvisi cambi di velocità. Gli spagnoli appena battuti dagli azzurri hanno reso celebre il loro tiki taka fatto di infiniti passaggi e ritmi serrati. 

Lo sport è individuo

L’Atleta di Cassino, Museo Naz. Carrettoni (Foto: Sara Fuoco)

Ma lo sport non è solo collettivo. È anche esaltazione dell’individuo. Del suo sforzo del suo slancio e forse del suo atto eroico. Ed al pari degli eroi mitologici oggi con forme diverse negli sport individuali uomini sfidano uomini per la vittoria. E la sfida Berrettini Djokovic sarà una grande sfida, quasi di proporzioni bibliche. Dove la forza, la concentrazione, la precisione, la potenza, decideranno chi prevarrà.

Succederà sempre nella verde Londra in un altro luogo iconico come il centrale di Wimbledon e tutto nella giornata di oggi sembra destinato a restare nella storia dello sport. Così certamente sarà. Saranno delle battaglie sportive senza esclusione di colpi. Dove certamente vincerà il migliore e scolpirà il proprio nome negli annali e nel cuore delle comunità che lo sostengono.

Delle vere e proprie guerre verrebbe da dire guardando la copertina del giornale indipendentista scozzese “The National”. Ha proposto in copertina Roberto Mancini in versione Bravehart. Dichiarando il proprio tifo per l’Italia perché come testualmente scrivono “non ce la facciamo a sopportare gli inglesi per altri 55 anni”. Si riferiscono alla vittoria nei mondiali del ‘66 che ancora viene celebrata con enfasi in questi giorni.

E forse questa è l’immagine migliore di questi giorni, rende l’idea della potenza evocativa dello sport che ormai supera quella politica e dello scontro potentissimo tra le sue comunità immaginarie. 

Perché checché ne dicano inginocchiatori seriali vari e buonisti di tutto il mondo come diceva Orwell “lo sport è una guerra senza gli spari”.