L’ultima partita di Sinisa contro il buio

Se ne va Sinisa Mihajlovic, il calciatore dalle punizioni impossibili, l'allenatore che trasmetteva carattere. E combatteva sempre. Come nella sua ultima partita

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Sarà stato perché era serbo o perché era tipo capace di cazziare anche un coccodrillo a dieta da due mesi. Ma il primo aggettivo che ti veniva in mente quando pensavi a Sinisa Mihajlovic era “forte”.

Forte come le stoccate mancine con cui ogni portiere che si rispettasse doveva sperare che la palla andasse in rete e non gli toccasse le mani a meno di non volerle ritrovare appiccicate come una buccia di fico sul vetro del pullman della squadra. A dire il vero niente più della parola “punizione” dava sostanza a quello che dal piede di quel tizio stava per esplodere a circa 160 chilometri all’ora.

Ricordi a colori

Foto © UEFA Europa League

Inutile menarla, il Sinisa mister ci ha lasciato ricordi a colori ma il Sinisa calciatore ce li ha messi tutti in fluo. Erano i colori eccessivi di un uomo che invece gli eccessi sapeva corteggiarli ma senza prenderci troppa confidenza. Mihajlovic sapeva essere politicamente scorretto, franco e burbero come nessun altro. Ma era tutta fanghiglia farlocca che copriva la bontà schietta di un uomo capace di tenerezze immense e spontanee.

Noi queste cose non le consideriamo più nella giusta prospettiva perché i serbi, se non sono campioni di calcio, nella nostra mistica a clichet sono solo lupi zannuti ammalati di grandezza. E invece il posto da dove Mihajlovic veniva aveva molto a che fare con quello che Mijailovic era, ma è questione di sfumature che non siamo mai andati a cogliere. Il guaio è che per accorgerci di quanto forte possa essere la fibra di un serbo ci siamo dovuti dividere come il Mar Rosso in due categorie: quelli che Sinisa lo amavano per il calcio e quelli che lo hanno rispettato per come ha affrontato il cancro.

Gli spunti monchi

Siniša Mihajlović (Foto: Simona Caleo © Imagoeconomica)

Ma il calcio e la leucemia sono solo due spunti monchi per capire chi è e come è fatto un cristiano. Danno indizi ma non il quadro completo, quello ce l’ha la famiglia bella e fiera che Mihajlovic ha dovuto lasciare. Però se agli indizi gli togli le pretese ecumeniche quelli diventano sfavillanti momenti di pura goduria umana. Specie se da essi desumi le qualità di chi li lancia, forti e tesi come le stoccate che dava in campo quando i portieri andavano di paternoster se lo vedevano fermo davanti alla barriera.

Nel 2018 ad esempio, quando Mihajlovic prese le redini della squadra che forse gli assomigliava di più, il Torino, lui esordì con una cosa talmente franca che molti si chiesero in quale parte di quel corpo nerboruto abitasse la diplomazia. Per capire subito dopo che essa lì era sotto sfratto da sempre. Lui disse: “Possiamo lottare per l’Europa, se non ci arriviamo è colpa mia”.

Ovviamente il Toro in Europa con lui non ci arrivò, a gennaio prese due scoppole nel derby della Mole e Mihajlovic si prese il benservito di Urbano Cairo non come una punizione, ma come la logica conseguenza di una sua cappellata. Perché quelli come Sinisa fanno così: lottano senza promettere e se non mantengono pagano.

La lotta nel buio

Di Luca Zennaro / ANSA

E quando lottano contro un male che non dà punti in classifica ma scatti all’indietro verso il buio quelli come Sinisa lottano lo stesso. E se perdono pagano il prezzo più alto e muoiono.

Ma per come hanno lottato il buio non lo vedono mai, perché il buio raggiunge solo chi morendo scompare. E Sinisa, quello con il cognome impossibili da scrivere bene da prima botta, di scomparire non ne vuole proprio sapere, perché ha fatto il nido nel cuore di tutti quelli che vedono i lividi come una benedizione.

Nel calcio. Nella vita. Dovunque.

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