Mio padre (Il caffè di Monia)

I pensieri del mattino di fronte ad un caffé: non sai mai se sarà dolce o amaro, ristretto o lungo. Come la vita: non sai mai cosa ti riserva

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

La casa odora di deodorante scadente, comprato al Lidl o all’MD. Non che ce ne sia veramente bisogno, ma certe cose offrono un conforto a basso costo e, a una certa età, se ne può avere bisogno. Nella vecchiaia si entra lentamente, quasi impercettibilmente.

È incredibile come, man mano che si invecchia, il mondo si restringe intorno, fino a diventare una specie di guscio, una corteccia spessa, nella quale ci si rinchiude in compagnia delle vecchie abitudini, dei ricordi delle persone care, della brutta tv sempre sintonizzata sugli stessi canali. È struggente vedere i tuoi che si comportano da vecchi, si muovono da vecchi, parlano da vecchi, si preoccupano e pensano da vecchi, dimenticano, perdono cose e colpi, faticano, rallentano, vacillano, soffrono, arrancano, ansimano, un po’ come i nonni quando eri piccina.

Stamattina rideva, era sereno, parlava con la voce tremula. Aveva la maglia bianca macchiata di dentifricio, i piedi senza calzini. Quando mi ha vista mi ha salutata con le sue braccia bianche dalla pelle percorsa da sottilissime rughe. E’ stato quel saluto, più che le parole, a farmi capire che è iniziato un viaggio speciale.

Il Dottore mi trattiene pochi minuti e mi congeda affidandomi due o tre frasi che mi tocca interpretare come gli enigmi della sfinge. Ho finito per odiare la lingua nella quale sono stata cresciuta per la possibilità di usarla senza dire nulla, come una sorta di sterile esercizio vocale teso solo a fortificare l’apparato laringeo. Però, dopo un po’, credo di aver capito qualcosa. Ed è quella che racconto a mia madre che è seduta nella sua cucina, davanti alla grande finestra che affaccia sul vicolo senza scorrimano.

Mentre le parlo guardo fuori e mi accorgo che il sole, nel primo pomeriggio del mondo, fiammeggia della luce fulgida e fredda dell’apocalisse. Ricordo che avevamo una Fiat, non mi viene il modello, ma era color caffellatte. La targa era FR 196472. Guarda tu, la ricordo ancora. Aveva lo sterzo sottile, fatto di qualcosa di molto simile alla bachelite, ma sicuramente era di plastica. Qualche volta, la domenica, quando mio padre finiva di ascoltare le partite ci portava a prendere il gelato in un bar dall’altra parte della città.

A me sembrava l’Australia. Mangiavo il gelato nel cono, alla cioccolata con sopra i confettini. Odiavo i coni. Mi piaceva la coppetta, ma, allora, pensavo che fosse giusto fare come fanno tutti.

Ora lui somiglia a un ricordo vivente senza tristezza né allegria, un simulacro di ciò che è stato. Lo ascolto per la centesima volta raccontare la stessa storia facendo la domanda giusta, nel momento giusto e scuotendo la testa col ritmo giusto. Odio il tempo che cancellerà quest’abitudine. Già ora che la sto vivendo mi manca.

Se potessi, strozzerei la materia fino a cancellare lo scorrere dei secondi per fissare come un’eterna crisalide l’estrema intimità di questo istante.

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