Il fidanzato di mia figlia (Il caffè di Monia)

E arriva il giorno in cui tua figlia inizia a fare tardi. Ad inventare scuse. A comportarsi da rimbambita. Si è innamorata. E tu...

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

È l’una di notte. Mi rigiro nel letto in preda ad una misteriosa agitazione. Intorno tutto tace. Solo caldo crematorio e il ronzio di una zanzara. C’ è silenzio, troppo. Mi alzo, apro la porta della sua stanza e lei non c’è. Mia figlia non è tornata.

Che sarà mai, mi dico, è estate e i giovani si sa, dimenticano di avere una casa. Una e mezzo, lei non torna ancora. Sempre più in preda all’isterismo del devesseresuccessoqualcosa, classico della madre insonne, prendo il telefono e la chiamo. Risponde subito. “Dove sei?”. “Scialla ma’ sono in giro con Carla”. Il respiro torna regolare, così come le pulsazioni e i brutti pensieri si dissolvono come fumo di un fumetto.

Che stupida che sono. Ma certo, mia figlia è solo a farsi un giro con la sua amica Carla. Mi rituffo al letto. Carla? E chi è Carla? Non ricordo di averla mai sentita nominare? Mah, sarà un’amica nuova.

Seconda notte, stesso caldo, stessa zanzara, stesso scenario. Questa volta sarò più forte. Non le telefono perchè non è successo niente e la mia piccola, non più tanto piccola, sarà sempre in giro con Carla. Tic tac, le lancette ruotano in uno sterminato senso di lenta agonia di cui controllo ogni eterno nanosecondo. Finalmente la sento rientrare. Il passo soffocato è lo stesso della Pantera Rosa. Non le dico niente, non mi faccio sentire sveglia. Mi basta che lei sia qui.

Terza notte. Appiccicosa, insonne e maledetta. E no, al diavolo la mamma moderna. La chiamo. Nessuna risposta. La richiamo. Nessuna risposta. Ansia, panico, sudore. Inizio a ruotare come un criceto in gabbia.

Nel silenzio sento il portone che si apre gracchiando. Braccia a brocca sui fianchi, sguardo da generale in guerra, tutto studiato a puntino, dal discorso al tomo fermo della voce, perchè quando occorre, bisogna essere credibili e severe. “Dove sei stata? Perchè non mi hai risposto? Ma è questa l’ora di rientrare?

Lei, faccetta da ebete, sguardo da ebete, sorrisetto idiota stampato sulla bocca: “Ma che dici ma’, ti avevo detto che sarei uscita con Adele, e poi il telefono non ha squillato, ma chissà chi avrai chiamato?”.

Adele? Ma non era Carla? Quella che mi hai spiegato essere la compagna di scuola di tua sorella. Cioè non proprio di tua sorella ma alla stessa scuola ma poi lei Carla era stata bocciata e non abitava nenche più qui e aveva i genitori separati di diversa etnia e diversa religione povera ragazza insomma un casino? E come non ho chiamato? Io me lo ricordo bene. Oddio, cosa mi sta succedendo? Starò forse invecchiando precocemente, mi dimentico le azioni e ricordo cose mai accadute? Non può essere vero. La mia mente è ancora lucida, credo.

Procedo la giornata con millimetrica precisione ad ogni azione compiuta, mi appunto spostamenti di cose, orari e scontrini. A sera faccio il punto della situazione: tutto quadra. Ancora funziono precisa e puntuale come un orologio svizzero. La vita in casa si svolge regolare, ma lei, la mia bambina, non è più la stessa. Canta, canta sempre. In doccia, per strada, mentre pulisce il bagno, me la ritrovo a cantare addirittura mentre sta già cantando. Biagio Antonacci poi. L’ha sempre odiato. Ma che le è preso?

Aveva gli occhi di tempesta, ora pare essere in preda ad una paresi facciale che incomincia a dominare il suo viso senza pausa. Ha una faccia estatica, sognante, evocativa, demente. Pare aver perso completamento l’uso della propriocezione, i suoi arti si comportano come una classe quando il professore si ammala: fanno quel cavolo che vogliono. Sbatte, inciampa, tutto le cade di mano. Me la ritrovo a guardare pellicole che fino a poco tempo fa avrebbe bruciato pubblicamente in nome di Savonarola, adesso le sembrano addirittura belle e commoventi. Qui non sono io a soffrire di Alzheimer, come voleva farmi credere. E’ lei che si sta rincoglionendo.

Finalmente arriva la triste verità, gradevole come un caffè con il sale: “Ma’ mi sono innamorata”. Eccolo qua, il momento che ogni mamma teme e rifiuta come un fosse un invito ad un concerto di Albano. Dovevo capirlo, dovevo arrivarci da sola, o forse l’avevo capito, ma non volevo vedere. Lei, la mia bambina, non è più mia.

Scattano le domande, sempre le stesse, sempre nello stesso ordine: chi è; che fà; dove abita; quanti hanni ha; cosa fanno la madre e il padre, come se il lavoro dei genitori influisse in qualche modo sul futuro intellettivo dei propri figli; io sono un’imbrattacarte fallita, ma è certo che mia figlia sarà qualcosa di più, di molto di più; e poi in ultimo, solo in ultimo come si chiama. Abbastanza irrilevante, ma non chiederlo pare brutto.

Lei ti racconta tutto con aria sognante ed innocente, con lo stesso sguardo di quando quel giorno, affondò per la prima volta le sue manine nella neve. Lui, quello che ti ha strappato tua figlia dalle braccia diventa l’oggetto di sentimenti contrastanti sempre gli stessi, sempre nello stesso ordine: affetto materno, gelosia, compassione (ancora non sa in che guaio si sia andato a ficcare), distacco, curiosità.

Eh già, quando capita la tragedia si attua in tutta la sua forza. Non lo dico io, lo dice la scienza. Il primo amore di mia figlia si chiamava Manuele. Proprio così senza la E. Lo confessò una sera sottovoce a sua sorella, mentre stavano per mettersi a letto. Manuele era un bambino magro, dai capelli neri e la pelle scura. Quando sorrideva aveva i denti bianchi e gli occhi allegri. Nei giochi che facevo con la mia bambina, compariva un piccolo cavallo di plastica dal colore grigio, la criniera al vento e le zampe protese in un balzo orgoglioso e forte. Questo cavallo si chiamava anche lui Manuele. Quando lo rapivo, lei correva a liberarlo, colpendomi e gridando di rabbia nella furia del gioco. Ci metteva tanta forza e impeto che io, provavo il fremito sotterraneo delle antiche paure.

Ora che l’aria si è fatta più dolce e vedo l’erba rifiorire, ora che gli uccelli annunciano l’affacciarsi del sole quando ancora il mio emisfero è rivolto altrove, ora che è possibile sedersi e socchiudere gli occhi alla luce senza che il freddo disegni piccole figure brillanti sul dorso delle mani, ora guardo mia figlia e la vedo turgida come la gemma di un fiore di ciliegio, profumata della vita e pronta a prendere la strada che la porterà lontano.

Lei non ama i luoghi affollati, la gente nuova, le prove, i confronti, ma ci si sottopone con commovente abnegazione. A volte penso che lo faccia per guadagnare la mia considerazione e non posso che chiedermi come non abbia ancora capito che io la considero infinitamente. Ben oltre il tempo in cui si è affacciata nella mia vita ed il terrore di lasciarla e di vederla delusa.

La guardo felice come allora e penso che lei rimarrà per sempre la mia bambina e che non avrò il tempo di vedere altro. Ci deve essere del buono in tutto questo.

Sono certa che un giorno lo troverò.

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