Oggi sono retrocesso ma ho insegnato alla A cosa è il tifo

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Stefano Pizzutelli

di STEFANO PIZZUTELLI

Blogger (quando ne ha tempo)

 

Oggi sono retrocesso. Ci ho messo 37 giornate a fare quello che i Criscitielli e le altre badanti dello status quo prevedevano per gennaio, per febbraio al massimo.

“Non sono attrezzati; prendono tre o quattro gol a partita; nessun ricambio in attacco”. Vero, tutto vero. Eppure noi, testardi, ostinati, non ci siamo rassegnati. Là dove non è arrivata la classe, è arrivata la tigna. Siamo caduti in un pozzo e ci siamo rialzati, con le unghie e abbiamo visto la luce. Con noi non ha passeggiato più nessuno, persino la Juve.

Poi quando abbiamo provato ad alzare la testa davvero, c’era sempre un badile che ci arrivava dritto in ciocca, come quel gioco delle martellate in testa alla talpa. Col Chievo andiamo in vantaggio, la partita è in controllo, poi una serie incredibile di errori, al limite della vessazione, al limite, o forse oltre, del sadismo.

Perdiamo col Palermo, col classico gol nel momento del nostro massimo sforzo; andiamo a Milano, col Milan, la squadra che si è autoeletta la più titolata al mondo (dimenticando l’Al Ahly, ma quelli so africani e al berlusca che je frega) e ci inventiamo un’altra delle nostre partite folli. Ma poi al novantunesimo il nostro centrale ucraino con la faccia da Spongebob dimentica che è vietato avere le braccia se giochi contro la squadra più titolata del mondo.

Basterebbero questi cinque punti, quelli abilmente scippati nelle ultime due trasferte, e staremmo pari al Palermo, per dire.

E così arriviamo a oggi, al Sassuolo. E’ una partita come un anno. Bardi a Milano ha parato tutto? Bene, si stira. Il boscaiolo pazzo ha il sinistro più caldo di un abbacchio scottadito? Palo. Danielone nostro si inventa il pallonetto dell’anno? Palo. Azione del gol, fallo di Falcinelli su Crivello? Ma quando mai. Come sempre, come quest’anno. La traversa di Paganini col Chievo all’andata; i tre pali con l’Inter, che stanno ancora a tremare. E se c’è una cosa, una sola cosa che ho imparato in serie A, è che nessuno ti perdona di essere sfortunato e c’è sempre un Icardi, un Politano a ricordartelo.

Oggi è stato questo, una partita come l’anno; ci sono anni che Beretta prende il palo, che Miccoli si stocca, quelli che la Ternana fa il tiro al bersaglio e gli anni che la porta si stringe e la jastema si libra, quasi solida, sopra il Matusa.

Stasera, i tizi che per un anno ci hanno ignorato, che hanno glissato sui russi e i tagliaventi, che ci davano per spacciati a settembre, stasera esaltano lo stadio british e i cori e le bandiere davanti a quella retrocessione che loro e i lotiti infrontati bramavano già prima di Frosinone – Crotone dell’anno scorso.

Ma sì, potete sorridere, togliamo il disturbo, siamo troppo diversi. Meglio 300 laziali a Modena, dove noi eravamo 1500, meglio che una squadra che sta per andare in Europa League vada in trasferta con 30 tifosi; meglio chi nel bel mezzo del campionato passa dalla vostra parte e non riesce a vincere manco con due rigori e due espulsioni.

Ma c’è una cosa che non capite. Non capite qual è la differenza. In curva, in quella curva oggi semplicemente sensazionale, in quei distinti sempre pieni di simpatici rompicoglioni, non ci sono tifosi, c’è la città, la nostra terra. Non c’è tornello, non c’è recinto, non c’è staccionata, non c’è cancello o lucchetto che possa separare la città da quel campo, stretto e lungo. In ogni filo di quell’erba ci sono io, c’è Armando, c’è ogni Spaziani, ogni Bracaglia, ogni Turriziani, ogni bambino finalmente libero dalla schiavitù delle squadre metropolitane, c’è il medico e il benzinaio, l’anarchico e il fascista, la ragazza scellerata e quella perfettina, la nonna incazzata e il marito che scuote la testa sorridendo.

Non è tifo, è la città, la terra; non siamo tifosi, siamo semplicemente noi.

E, come sempre, Forza Frosinone