Sergio Pirozzi, l’outsider che non ti aspetti

Foto: copyright Antonio Masiello

Ogni gara ha un Federer, un Varenne, una Juventus che hanno già trionfato prima del tempo, ma poi spunta Chang, spunta Soldatino, spunta il Verona direttamente da storie di lucida follia, di resistenza, di tenacia. Sergio Pirozzi è l'outsider che in Italia non ti aspetti

Mauro FONDATO

per HUFFINGTON POST ITALIA

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Un outsider nasce sempre in un retroterra imbevuto di immaginazione, di visione e anche di coraggio. È qualcosa che sfugge ai pronostici, alle previsioni di chi semplicemente applica la logica alle competizioni: è il più forte e vincerà o arriverà sul podio; l’aggettivo si può sovrapporre con ricco, attrezzato, intelligente, preparato, cambia poco.

Ogni gara ha un Federer, un Varenne, una Juventus che hanno già trionfato prima del tempo, ma poi spunta Chang, spunta Soldatino, spunta il Verona direttamente da storie di lucida follia, di resistenza, di tenacia.

La politica è più conservatrice, praticamente impossibile che qualcuno possa avanzare senza essere notato, fiutato e se ha chance di vittoria primordiali il suo carro inizia a imbarcare passeggeri. Esistono tuttavia storie di un terzo incomodo, perfino nel paese dove più di tutti la corsa è circoscritta a due: gli Stati Uniti d’America.

Nel 1992 alle elezioni presidenziali i repubblicani ricandidarono l’uscente George Bush padre, i democratici risposero con il rampante governatore dell’Arkansas Bill Clinton.

Dopo la conclusione vittoriosa della prima guerra del Golfo, pareva che Bush godesse d’un consenso difficilmente scalfibile; secondo molti fu questa la ragione che spinse uno dei più popolari esponenti democratici, Mario Cuomo, a rinunciare alla candidatura alle primarie.

La sorpresa, finita nei manuali di comunicazione politica, fu il miliardario texano Ross Perot, convintamente repubblicano, ragion per cui in tanti tentarono di dissuaderlo a partecipare. Dopo un primo ritiro, forte di sondaggi popolari che crebbero esponenzialmente, tornò in pista e partecipò anche ai confronti televisivi con i più blasonati competitor, cosa mai concessa a nessun altro.

Non parlava in politichese e molte delle sue proposte erano effettivamente libri dei sogni o serpenti zoppi ma ottenne comunque il 19% dei voti popolari (nessuno dei Grandi Elettori). Addirittura in due stati Perot arrivò secondo in termini di voti, superando così un candidato tradizionale: nel Maine, infatti ricevette il 30,44% dei voti mentre Bush si fermò al 30,39% (Clinton vinse con il 38,77%); in Utah ottenne il 27,34% dei suffragi mentre Clinton si dovette accontentare del 24,65% (Bush vinse in Utah con il 43,36%).

Un risultato comunque pazzesco, mai più eguagliato da un indipendente, che forse ha segnato una svolta nella politica americana, che è arrivata a compimento con l’altrettanto inaspettata vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 2016.

Sergio Pirozzi, candidato alla presidenza della Regione Lazio ha molti tratti in comune con Perot: hanno provato a farlo ritirare, corre con forze proprie, non ha un partito alle spalle e piace al popolo.

Un avviso di garanzia dalla tempistica perlomeno sospetta non ne ha scalfito il consenso, che nasce da un genuino rapporto con la gente e con il territorio.

Anche lo scarpone, simbolo della sua lista, ha tutti quei crismi che stabiliscono empatia, perché sa di fatica. Da allenatore saprà sicuramente che un Rivera, un Platinì sono fatti per piacere all’occhio, ma poi servono gli Oriali, i Bonini, che invece piacciono alla pancia e da lì al cuore è un attimo.

Pirozzi canta e porta la croce, se un compagno di squadra subisce un fallo o una prepotenza è il primo ad andare a difenderlo, a farlo rispettare parlando con l’arbitro. Tutto questo piace, perché i tifosi hanno imparato a discernere chi bacia la maglia, ma alla prima occasione la sostituisce con un’altra e chi la bagna di sudore.

 

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