Pugni, pueblo e Pibe, tutti nell’agenda di Gianni Minà

In memoria di Gianni Minà. Che per primo capì che un giornalista per essere bravo non dev’essere bravo, deve essere utile.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Quando Cassius Clay decise di diventare Mohamed Alì con tutti gli annessi a connessi, il pugile mise in conto di dover vivere sempre con una puntina di diffidenza nell’approcciarsi con il mondo. Lo stesso fece Diego Armando Maradona quando capì che le amicizie con i Giuliano di Forcella lo avevano scalciato in un tritacarne mediatico che alla lunga avrebbe incentivato le sue debolezze. Perfino le madri di Plaza de Mayo, che per essere diffidenti avevano motivi molto più seri, capirono che per avere un’udienza da Papa Wojtyla dovevano superare un preconcetto. Quello di essere testimonial di un modo di vivere socialista, prima che del dolore di chi non trovava più il figlio rubato dalla polizia e desaparecido.

Gianni Minà (Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Però tutti si fidavano di Gianni Minà, perché fondamentalmente lui era un uomo leale, ecco perché aveva così tanti amici e di quella caratura storica. Massimo Troisi gliela invidiava a morte l’agenda, a Minà: sul tema lo aveva perculato più volte in pubblico in alcune memorabili gag. Ma fondamentalmente l’aura di prestigio di quel libricino restava a galla anche nel mare di risate che il comico napoletano sapeva suscitare.

In mezzo a quei fogli vergati da una ordinata grafia da piemontese rigoroso c’erano stampati i numeri magici delle persone più potenti e carismatiche del pianeta. Gente che Minà chiamava con la stessa noncuranza con cui noi oggi si potrebbe telefonare al cognato carrozziere dopo una retromarcia maledetta del figlio neo patentato. E rispondevano tutti.

Insuperabile Minà

Gianni Minà(Foto: Carlo Carino © Imagoeconomica)

Il segreto di Gianni Minà era scialbo ma efficacissimo, forse insuperato per i modelli giornalistici dei suoi anni migliori: lui aveva inaugurato la grande stagione dei testimonial della diversità, personaggi tutti più o meno legati a modi di vivere “contro”. Erano lottatori che però avevano dalla loro il pregio di avercela fatta e che quindi potevano permettersi di essere “diversi nel pieno trionfo della loro notorietà e di un diritto di parola che per loro era decuplicato rispetto alla gente comune.

Se ti chiami Fidel Castro sarai pure il nemico numero uno dell’Occidente ma cazzarola sei Fidel e se dici una cosa quella cosa arriva alle orecchie e decanta nelle pance del pianeta e senza social di mezzo. Minà questo lo sapeva benissimo ed usava i suoi personaggi come totem per far capire alla gente che la vita è fatta di curiosità più di quanto non sia fatta di steccati. E che ognuno ha la sua storia da cui qualcuno può spremere una rotta, un consiglio, una soluzione o una morale.

L’amore sconfinato di Minà per la disastrata geografia etica dell’America latina, per la musica in radio, quello per lo sport e per la comunicazione diretta e senza il piombo delle incidentali avrebbero fatto il resto, mettendo a servizio di ascoltatori, telespettatori e lettori un patrimonio di storie clamoroso e disomogeneo. Gianni Minà aveva capito prima e più di tutti che un giornalista per essere bravo non dev’essere bravo, deve essere utile. E nell’epoca dei grandi gargarismi dialettici di un mestiere che si era già imputtanito con l’aura presuntuosa della professione, usò gente grande per dire cose immense.

Le vite messe a nudo

Minà con Robert De Niro, Cassius Clay, Sergio Leone e Garcia Marquez

Solo che non le diceva lui, che odiava il giudizio e non riteneva fosse nel novero delle cose “giornalistiche”, le faceva dire agli altri. La sua piccola epica quotidiana e un po’ maliarda e “caricata” grazie alla caratura di chi la incarnava divenne un successo. Un successo che mise a nudo le vite di gente come Pasolini, calciatore ruvidissimo, Che Guevara bucato dai suoi killer, Gabriel Garcia Marquez che non sapeva di essere immenso e non conosceva Zavattini, i Beatles e Jimi Hendrix sbronzo marcio all’Isola di Wight o Maradona che volle che Minà assistesse alle sue sedute dallo psicologo e le filmasse.

Minà, che era leale, quei video li bruciò per non cadere nella tentazione di pubblicarli, perché scappare dal giudizio ed esporre la nuda vita dei grandi era la sua sola missione. E grazie a quella le storie dei vincitori divennero esempio per le vite degli sconfitti, i miti si fecero piccini e mortali e quindi risorsero immensi ed eterni. E la grandezza di un mondo lontano arrivò alla portata di chi grande non sarebbe stato mai perché aveva una vita da vivere.

Ma che grazie a Minà ogni tanto riusciva a scappare da essa. E a parlare con Cassius consolandolo dei tremori alle mani, giocare a calcio con Pierpaolo o accordare la Fender con Jimi. Perché la grandezza non è di tutti, ma un loggione da cui contemplarla e magari imparare ad essere grandi senza necessariamente spazzolare Sonny Liston tocca a tutti per diritto.

E Minà questo lo aveva capito prima e meglio di tutti.