Quel mare che blocca il mio sogno di essere allo stadio Popolla

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Gianluca Lombardi

di GIANLUCA LOMBARDI
Maresciallo dei Carabinieri (a Budoni – OT)
Papà di un calciatore (a Ceccano – FR)

 

Questo parole le ho scritte stanotte, ora le sto semplicemente traducendo in un post. Le ho scritte quando mia moglie ha deciso che era ora di trasferirsi dal divano al letto decidendo anche di rimboccare le lenzuola. Meglio: rifare praticamente il letto, con me all’interno. Stendere per bene le lenzuola, dare due sberle al cuscino ché sennò non è perfetto e tentare vanamente di fare in modo che il mio corpo esanime si trovasse sotto il piumino e non sopra.

Erano le 02:33: l’ho scoperto guardando il telefono sul comodino ed è allora che è cominciata la mia giornata. Sono rimasto a letto, era veramente prestino per andare in ufficio. E così mi sono venuti in mente i ragazzi di Berlino che domenica saranno al Dante Popolla per la partita. Non dico “quella” partita: non dico nulla. Per scaramanzia. Non sono scaramantico, ma hai visto mai. E con gli occhi chiusi nel tentativo, vano, di riprendere sonno ho cominciato a pensare a come sarebbe bello esserci, domenica al Popolla.

Già, il Popolla. Ci sono nato, a Ceccano. E se il prato di Santa Maria era quello d’allenamento, il Popolla era lo Stadio di noi giovani(ssimi) aspiranti calciatori e del grande Ceccano. Noi giocavamo di sabato (come il Frosinone il prossimo anno), i “grandi” la domenica. Ho giocato su quel campo, che allora era di sabbia e ad ogni scivolata volava via mezza coscia; ed avevamo i palloni di cuoio che ad ogni colpo di testa l’emicrania durava due giorni. Allora ero un genio incompreso: nessuno capiva le mie geometrie a centrocampo, la mia razionalità tattica, il mio vedere linee che altri non vedevano: in pratica una pippa di proporzioni gigantesche.

Però un paio di gol li ho ficcati: uno al Sora (repetita iuvant) under 18, di controbalzo da fuori area, sotto quella che la domenica diventava la curva Nord. Un altro su rigore, erano i giochi della gioventù, e con il prof. Antonio Micheli in panchina la terza C della “Sindici” dominava in ogni sport. Altro che “scuola media Gizzi”. Gli istituti comprensivi non li avevano ancora inventati, e noi ce le davamo come fabbri in ogni sport. Quando la maggior parte di giocatori e tifosi dell’attuale Asd Ceccano non erano ancora nati, o al massimo erano ancora in fasce. Non era (ovviamente, direi) nato nemmeno mio figlio, che ora indossa piuttosto frequentemente la maglia numero 7 del Ceccano Calcio.

Già, mio figlio. Domenica ci sarà “la” partita, ed io non ci sarò. Pensavo a questo stanotte, mentre pensavo anche queste parole. Ho visto allenamenti, sotto la pioggia, quando aveva sette od otto anni, che nemmeno il più esaltato sarebbe rimasto lì a guardare quei bambini “giocare a pallone”. E domenica non potrò esserci. Mi immaginavo, stanotte, gli orari degli aerei e quanto sarebbe dura fare Budoni-Ceccano-Budoni in un solo giorno. Immaginavo però anche di esserci, domenica prossima, in un angolo solitario del Popolla. Come sempre quando guardo, al Popolla, le partite di mio figlio. Come sempre quando sulla poltrona, con il mare a dividerci, aspetto che qualche anima pia mi dica il risultato.

Vivo e lavoro a Budoni, trenta chilometri sotto Olbia, in Sardegna, da 5 anni. Paese piccolo, meno di 6000 abitanti (che però d’estete diventano 60mila): squadra in serie D da due lustri, ed anche quest’anno, vedrete, si salverà. Vivo e lavoro qui da quando lui ne aveva 13. E lui vive lì. A Ceccano. Tre o quattro anni fa è venuto in vacanza, ha fatto qualche allenamento con i giovanissimi del Budoni (dopo il Cagliari, la più grande e seria realtà giovanile sarda). Se lo sono portati a fare un torneo ed ha fatto un paio di gol. Con un po’ di giri di parole, mi hanno fatto capire che volevano tenerselo. Con un po’ di giri di parole, ho provato a proporlo a lui, timidamente. La risposta l’avete vista voi, meglio e più di me, in questo campionato di terza categoria. Ogni maledetta domenica. O quasi. Lo scorso anno, con la squadra in promozione , solo io (seppur con il mare a dividerci) sapevo che il giorno dopo forse avrebbe esordito. Non ci ho dormito, quella notte, ma queste sono cose che un figlio non deve sapere, se non dopo. Ha scelto di rimanere a Ceccano, in terza categoria, da juniores. Il suo esempio si chiama Marino Di Pofi: amico mio e padrino di battesimo suo. Su questo, non ho altro da aggiungere: ognuno (ri)viva i suoi ricordi come meglio riesce. O come meglio crede, rispetto alla propria coscienza.

Non potrò esserci domenica. E mi mancherà, forse per la prima volta (di tutte le volte che me ne sono andato) la città in cui sono nato e lo stadio in cui ho giocato e la curva in cui ho tifato. Mi tornano in mente, mentre traduco oggi i pensieri di stanotte, altre cose, altre situazioni, altri volti. Ma forse è meglio finirla qui, perché altrimenti divento noioso con le storie di curva, di trasferte, di panini con la frittata mangiati andando allo stadio. E di tifo “sano”.

Come quello dei ragazzi della curva Nord. Perdonate se non faccio distinzioni fra gruppi e striscioni, tra uomini e valchirie: avete tutti in comune il sangue rosso-blu. E tanto basta. E’ meglio finirla qui, perché altrimenti divento noioso con le storie di padri e di famiglie allargate: quell’allargamento che mi fa considerare figli Giuseppe Cerroni e Alex Recine, juniores come Andrea Lombardi, colonne future di questa squadra. Nonostante le “ciocche” (di tutti e tre) in cui difficilmente i neuroni trovano alloggio. Se provano a smentirmi, pubblico le foto e le chat di what’up. E pure qualche aneddotto. E’ meglio finirla qui, perché altrimenti sarei costretto a ringraziare il “Capitano” Fofò Adinolfi ed il “mister” Domenico Maliziola. Del perché, lo sanno loro.

Non potrò esserci domenica, al Popolla. Ma per piacere: in curva tifate un po’ anche per me. Ed in campo vincete “la” partita un po’ anche per me.

Via da questa categoria. Forza Ceccano.

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