Quel patto di Valmontone che condannò il centrodestra all’esilio per 14 anni

Il 27 maggio 1998 l’accordo tra Domenico Marzi e Adriano Piacentini per le elezioni comunali del Capoluogo. Ma non ci fu alcuna cena, come invece narra la leggenda

Corrado Trento

Ciociaria Editoriale Oggi

Sono passati ventidue anni da quello che è passato agli onori della cronaca politica cittadina come il “patto di Valmontone”. Fu raggiunto il 27 maggio 1998: a siglarlo Domenico Marzi (che pochi giorni dopo sarebbe diventato sindaco di Frosinone) e Adriano Piacentini, attuale presidente del consiglio comunale e allora candidato a sindaco che era rimasto fuori dal ballottaggio.

Nessuno dei protagonisti allora poteva immaginarlo, ma quell’intesa tenne il centrodestra fuori per tre mandati dal governo del capoluogo. Al punto che si disse che fin quando Nicola Ottaviani, Adriano Piacentini e Riccardo Mastrangeli avrebbero militato nella stessa coalizione, sarebbe stato impossibile perfino immaginare la vittoria.

Gli oracoli smentiti

Adriano Piacentini (Foto: AG. IchnusaPapers)

Soltanto molti anni dopo, esattamente nel 2012, i tre avrebbero smentito gli oracoli di allora: Ottaviani fu eletto sindaco di Frosinone e oggi è al suo secondo mandato.

Riccardo Mastrangeli è il potentissimo assessore tecnico al bilancio e Adriano Piacentini, oltre ad essere il presidente dell’aula, è l’esponente più ascoltato dal primo cittadino. Ma il 27 maggio 1998 la situazione era completamente diversa. Si era appena svolto il primo turno delle comunali. Al ballottaggio erano andati Domenico Marzi (centrosinistra) e Italico Perlini (centrodestra). Il primo con il 38,33% (12.310 voti), il secondo con il 31,55% (10.131 voti). Ma il risultato più pesante sul piano politico lo aveva ottenuto proprio Adriano Piacentini, con il 18,52% (5.947 voti). Piacentini guidava una coalizione di centro che aveva come punto di riferimento l’Udr di Francesco Cossiga.

Inserendosi in uno scenario nazionale che si concretizzò con l’appoggio dell’ex picconatore al Governo guidato da Massimo D’Alema. Il regista locale dell’operazione era un autentico pezzo da novanta della politica provinciale: il senatore Romano Misserville, una vita nell’Msi prima e in Alleanza Nazionale dopo. Ma da mesi Misserville era in rotta con il leader di An Gianfranco Fini. Le comunali di Frosinone rappresentavano un’occasione troppo ghiotta per dimostrare che in fondo poteva avere ragione lui.

Due elementi chiave

Paolo Fanelli

Ma per comprendere bene la situazione del centrodestra cittadino in quel momento, mancano due elementi. Il primo: si veniva dalle dimissioni di massa che avevano mandato a casa il sindaco del centrodestra Paolo Fanelli. Quell’operazione era stata orchestrata da Nicola Ottaviani, ex fedelissimo di Fanelli. La coalizione era lacerata e attraversata da polemiche e “rancori”. Il secondo elemento è quello della candidatura a sindaco di Nicola Ottaviani, con Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini. Al primo turno Nicola Ottaviani aveva toccato l’8,06%, grazie a 2.590 preferenze.

Domenico Marzi era sì passato in testa al giro di boa, ma sapeva perfettamente che il centrodestra era comunque maggioranza a Frosinone. I numeri del primo turno lo dimostravano: Perlini, Piacentini e Ottaviani, insieme, avrebbero condotto la coalizione alla vittoria. Però la politica non è matematica, è fatta anche di grandi manovre e di rivalità personali. E nel maggio 1998 c’erano tutti gli elementi per un risultato clamoroso, quello della vittoria del centrosinistra guidato da un esponente (Domenico Marzi) proveniente dal Pci.

La leggenda della cena

Romano Misserville

Torniamo però al centrodestra: Adriano Piacentini aveva il dente avvelenato nei confronti della coalizione. Intanto perché negli anni passati Paolo Fanelli gli aveva revocato la fiducia come assessore. E poi perché i partiti dell’allora Casa delle Libertà (Forza Italia, An e Ccd) gli avevano preferito Italico Perlini. A primo turno appena concluso si erano subito registrati attacchi fortissimi tra Perlini e Piacentini. Inoltre, sullo sfondo si muoveva Romano Misserville, che aveva un obiettivo chiaro: far perdere Perlini e il centrodestra. Il radicamento elettorale di Piacentini era fortissimo soprattutto nel quartiere Scalo. Domenico Marzi aveva intuito che la partita si sarebbe vinta o persa lì. Non c’erano altre strade se non quella dell’intesa con Adriano Piacentini.

La leggenda racconta di un accordo raggiunto a cena intorno ad una tavola affollatissima. In realtà, non andò così. I due si incontrarono a Valmontone, in una saletta conferenze a due passi dall’uscita del casello autostradale. Con Domenico Marzi c’era Francesco De Angelis, già da tempo leader indiscusso del Pci prima e del Pds dopo. Marzi e Piacentini si guardarono negli occhi e si strinsero la mano. Non c’era bisogno di dire nulla. Nei giorni successivi Adriano Piacentini “battè” il territorio palmo a palmo. Nel quartiere Scalo andò famiglia per famiglia: “Al ballottaggio si vota Marzi”. Il suo elettorato, per quanto di centrodestra, lo seguì senza indugiare troppo. Al ballottaggio del 7 giugno Domenico Marzi divenne sindaco di Frosinone con il 54,75% dei consensi (14.717 voti). Italico Perlini si fermò al 45,25% (12.162 consensi).

Il “patto di Valmontone” aveva funzionato. Il centrodestra iniziò una traversata nel deserto che durerà quattordici anni.