Riti del venerdì santo: io che ho “condannato” Cristo

Un ateo che partecipa alla Passione Vivente. E che ne resta colpito. Come nella storia del generale Della Rovere: truffatore e baro ma una volta nei panni di un generale seppe morire da eroe

Lidano Grassucci

Direttore Responsabile di Fatto a Latina

Esiste uno spirito dei luoghi: io vengo da un posto dove sono più le chiese delle persone, dove l’incenso ha più presa del sugo (per altro finto). Da un posto che nella settimana santa ha il suo tempo più “significante”. E nel venerdì il suo punto più alto. Un tempo in cui ogni attimo si è formato in millenni e significa come tutti i libri del mondo.

Oggi per i cristiani muore il Nazareno, muore condannato da un popolo che alla verità preferisce il malfattore. Muore un uomo non per la ingordigia di avere troppo ma per il miracolo di donare.

Come spiegavi tutto questo? Come lo rendevi comprensibile ad un mondo che dei campi sapeva tutto, di come far venire su le piante e allevare il bestiame conosceva ogni segreto. Ma in teologia era ben poco ferrato. Lo spiegavi facendolo vedere: mettendo in scena il film della più grande storia dell’umanità e trasformando in schermo le vie della città, lungo i vicoli. 

Il rito del venerdì

Foto © Giuliano Palmigiani

A Sezze la sera del venerdì Santo anche Hollywood impallidisce perchè una trama così è … divina. Da ragazzo fui nel film, facevo con i goliardi amici miei il sacerdote con Caifa, facevo quei sanfedisti che volevano “uccidere” la verità in nome dell’ortodossia, dell’accettare per vero l’ovvio e non cercare il dubbio di parole nuove.

Lo facevo col gusto del militante ateo, del rigoroso razionalista, del marxista che vede nell’oltre oppio. Resto dell’avviso di allora, ma sapete della storia del generale Fortebraccio Della Rovere. Un povero Cristo che non ha certo una vita di virtù, anzi bara con la vita e si trova ad “indossare” gli abiti di un generale italiano. E quegli abiti cambiano quell’uomo lo fanno “patriota” da “baro”. Morirà con dignità di una tradizione militare e ideale che lui ignorava.

L’abito fa il monaco. Ma qui, in queste notti, che quasi sempre piove non è questione di credere o no: è questione di sentirti figlio di un filo che è la tua comunità. E in quel filo c’è la Fede anche se negata, anche se impossibile alla ragione.

Foto © Giuliano Palmigiani

Una intera comunità racconta la storia più antica del mondo, un nazareno che non era uomo ma era dio, che non era dio ma era uomo e un Dio che ha bisogno di una donna per farsi sua creatura.

Ho voluto ricordarlo, sono stato nel tribunale che ha “ucciso Cristo”. Il sacerdote alla destra di Caifa urlava: Ha detto di essere il figlio di Dio, ha bestemmiato, è reo di morte”. Caifa si rivolge verso noi e attende. Noi tiriamo fuori il braccio e “morte”. La condanna. Dal pubblico ai lati qualcuno urla contro noi “disgraziati”.

Non ci crederete ma un poco disgraziati alla fine ci sentivamo davvero.

Cose che capitano in questa terra dove l’unica speranza è sperare.