L’affaire Salvati spacca i Fratelli d’Italia

Una parte del Partito fa quadrato intorno ad Antonio Salvati. L’altra parte ne prende le distanze e non si presenta al convegno organizzato al Cesari per parlare di referendum.

Accade poche ore dopo la sentenza della Corte dei Conti che ha condannato il Portavoce di Fratelli d’Italia per la sua gestione dei profughi. (leggi qui la condanna) Con motivazioni tali da indurre il Partito a commissariarlo, accogliendo le dimissioni presentate il mese scorso. (leggi qui il commissariamento)

Quella al Cesari è stata la prima uscita ufficiale dopo la condanna. Salvati è presente. Incassa la difesa pubblica che gli arriva sia dal coordinatore nazionale Fabio Rampelli e sia da quello regionale Marco Marsilio. Sono i suoi riferimenti politici da quando è entrato in Fratelli d’Italia. Entrambi hanno detto di confidare nel fatto che «Salvati riuscirà a dimostrare in appello la sua innocenza». Hanno evidenziato che «comunque la sentenza ha accolto solo in parte le tesi d’accusa». E che si sta parlando «di un aspetto amministrativo, mentre la magistratura penale ha da tempo presentato richiesta di archiviazione». Che ancora non è stata esaminata.

Il segnale politico però è anche un altro. Un’ala del Partito non è andata all’incontro. E’ l’anima che proveniva da Alleanza nazionale e prima ancora militava nella destra sociale. A sancire lo scollamento sono stati il sindaco di Ceccano Roberto Caligiore, l’ex assessore provinciale Massimo Ruspandini, il responsabile Enti Locali Daniele Maura. Non hanno messo piede al Cesari. Loro, con Salvati sono in roitta di collisione da mesi. Sollecitano un congresso, una conta interna che stabilisca le posizioni. Una richiesta con la quale l’inverno scorso puntavano a prendere la guida provinciale di Fratelli d’Italia. Poi l’ingresso dell’ex parlamentare europeo Alessandro Foglietta ha scompaginato gli equilibri riportandoli a favore del Portavoce commissariato.

Salvati, se non interverranno altri impedimenti, al prossimo congresso si candiderà alla segreteria. I numeri ad oggi sono in bilico.

Intanto, nelle ore scorse il sindaco di San Giovanni Incarico ha rotto il silenzio. Sulla sua bacheca Facebook è appara una nota. Lì ha spiegato la sua posizione sull’inchiesta e sulla condanna.

«La Corte riteneva che io avessi lucrato sui Profughi: non mettendomi in tasca i soldi, non rubando, non appropiandomi di un solo centesimo. Bensì avrei “lucrato sui Profughi” facendo lavorare, in 2 anni, con i soldi destinati ai profughi, oltre 400 italiani, giovani e disoccupati. Sono stati impiegati in servizi pubblici essenziali (quindi non a casa mia ma in Servizi pubblici essenziali del Comune di San Giovanni Incarico e dell’Unione)».

Entran nel dettaglio e aggiunge: «Io ed il mio Avvocato abbiamo, comunque, sempre contestato tale ricostruzione così come formulata dall’accusa della Corte dei Conti. Ma se anche, per mera ipotesi, fosse vera, di cosa io mi dovrei vergognare? Di che cosa? Se avessimo fatto una tale cosa, dovremmo sicuramente pagare 800mila euro all’erario (equivalenti agli stipendi, al lordo, percepiti, in 2 anni, dai 400 giovani e disoccupati impiegati in Servizi pubblici essenziali). ma non di certo vergognarci di avere fatto lavorare le persone disoccupate».

Con un’annotazione per i giornalisti, definiti: «i soliti sciacalli, i pennivendoli (che non riescono nemmeno a scrivere in un italiano corretto e si atteggiano pure a giornalisti) servi del loro padrone».

Grazie sindaco: la stima è reciproca.

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