Salvatore Boccaccio, il vescovo rimasto prete dentro

Dieci anni senza don Salvatore Boccaccio, il vescovo che aveva voluto mantenere l'identità di prete. Per costruire come una grande parrocchia unita le diocesi nelle quali veniva inviato per la sua missione.

di Marco TOTI

Direttore Caritas Frosinone

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Il 18 ottobre 2008, monsignor Salvatore Boccaccio, “don Salvatore”, come desiderava farsi chiamare, terminava la sua esperienza terrena ed entrava nell’abbraccio del padre, quel “Papà”, che sempre aveva ringraziato nei momenti più dolorosi della sua vita.

Don Salvatore aveva voluto mantenere, anche nell’appellativo, l’identità di prete romano, nato nel Centro storico di Roma, come rivendicava.

Formatosi al Seminario romano, per 24 anni prete nella Capitale in tante esperienze diverse, dall’insegnamento nelle scuole, alle diverse parrocchie in cui ha volto il ministero di viceparroco e di parroco, dai quartieri bene, come Gregorio VII, alle Borgate, come la Palmarola, ai quartieri popolari, come l’Appio Latino e il Prenestino.

Identità del tutto mantenuta nei cinque anni (1987-1992) di servizio episcopale come Vescovo ausiliare per il Settore Nord della Capitale (Tiburtina, Nomentana, Salaria, Flaminia), voluto dal Cardinale Vicario Ugo Poletti.

Negli anni del servizio episcopale a Roma inizia anche l’impegno, che porterà avanti per 10 anni, di presidente della Commissione ecclesiale della C.E.I. per il tempo libero, lo sport e il turismo.

Il percorso romano viene scandito anche da forti esperienze spirituali nell’Opera Romana Pellegrinaggi, nel Movimento Pro Sanctitate, nell’Unitalsi, all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

L’esperienza episcopale di Don Salvatore vive due altre tappe nella Diocesi suburbicaria di Sabina-Poggio Mirteto (1992-1999) e nella Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino (1999-2008).

In entrambe le esperienze si impegna nella costruzione di una identità di Chiesa diocesana alla luce dell’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II.

Le vicende storiche da cui venivano le due Diocesi, sia in Sabina, sia in Ciociaria, lo spingono ad investire nella formazione del clero all’unità presbiterale, nella promozione dell’impegno dei laici, anche in ruoli di responsabilità (alla luce della “Christifideles laici”), nella promozione di una comunità cristiana sensibile alle gioie e alle speranze degli uomini, mettendosi in ascolto del Vangelo (richiamato nello stemma episcopale) e a scuola della “cattedra dei piccoli e dei poveri”.

La Sabina storicamente, fino al Concilio, non aveva un Vescovo diocesano residente, perché governata dal Cardinale Vescovo titolare, e non aveva maturato una coscienza autonoma di Chiesa diocesana. La Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino, in cui il suo predecessore, Mons. Angelo Cella, aveva condotto il delicato momento della fusione, avvenuta solo nel 1987, delle due antiche Diocesi precedenti, doveva imparare a calare nella quotidianità la nuova identità.

I pellegrinaggi giubilari diocesani del 2000 al Santuario della Madonna del Divino Amore e a San Pietro, con l’udienza speciale del Papa sulla Piazza, davanti a 9.000 pellegrini ciociari, e la visita di S. Giovanni Paolo II a Frosinone, il 16 settembre del 2001, hanno dato l’impronta ai 9 anni di episcopato di don Salvatore in Ciociaria: una Chiesa di popolo, accogliente, fatta di cristiani che si sentono chiamati in prima persona, in forza del Battesimo, a lodare il Signore e ad impegnarsi nell’evangelizzazione e nella testimonianza di carità.

I tre tabernacoli dell’Eucarestia, della Parola e dei luoghi di ascolto ed accoglienza dei poveri.

Il tratto di una salute malferma, in contrasto con la possanza fisica, lo ha sempre accompagnato negli anni, fino all’ultimo periodo, dal gennaio all’ottobre 2008, in cui ha percorso un lungo calvario, dalla sala operatoria, al letto di ospedale, alla sedia a rotelle, al letto di casa, ripetendo sempre, come una litania, “Grazie Papà”.