Scusa Serena per questi 18 anni di ritardo (di A. Porcu)

Con la richiesta di processo per l'omicidio di Serena Mollicone, la Procura di Cassino cancella ogni ombra dall'immagine dello Stato. E anche i carabinieri:perché c'è un dettaglio che pochi conoscono...

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Aveva ragione la maestra. Aveva ragione l’autista del bus. Non vollero credergli. E per questo abbiamo perso diciotto anni. Nei quali un assassino è andato in giro impunito. E Serena Mollicone è rimasta senza giustizia, papà Guglielmo è rimasto senza pace, la provincia di Frosinone e l’Italia sono rimaste con un’ombra in più.

La richiesta di aprire un processo bis per l’assassinio della liceale di Arce sparita il primo giugno 2001, formulata in mattinata dalla Procura della Repubblica di Cassino, è l’atto con cui lo Stato riconquista credibilità di fronte se stesso e di fronte ai suoi cittadini.

Gli uomini del procuratore Luciano D’Emmanuele dicono a Serena, a papà Guglielmo, alla provincia ed agli italiani: lo Stato non si arrende, lo Stato non dimentica, nemmeno se passano diciotto anni, nemmeno se deve indagare su una parte di se stesso.

Sono due gli elementi scomodi in questa inchiesta. I servitori dello Stato che compongono la Procura della Repubblica di Cassino hanno dovuto investigare e mettere in dubbio l’operato di altri servitori dello Stato, sospettando che non siano stati leali nei confronti della Repubblica e della divisa da Carabiniere che indossavano ed indossano.

Soprattutto hanno dovuto mettere in discussione se stessi. Il Pubblico Ministero è un ufficio dello Stato, non conta chi siano gli uomini a rappresentarlo. È lo Stato. A Cassino, lo Stato ha avuto il coraggio di mettere in discussione se stesso. Ammettendo che l’inchiesta fatta 18 anni fa aveva in mano gli elementi necessari per arrivare al colpevole. Ma non gli credette. E mandò sotto processo l’uomo sbagliato, Carmine Belli, accusandolo del delitto.

In quel processo, l’autista di un bus del Cotral venne a testimoniare che al mattino lui aveva riaccompagnato Serena fino ad Arce. La maestra elementare di Serena disse di avere visto la ragazza camminare dalla fermata del bus, esattamente all’ora in cui l’autista diceva di averla fatta scendere ad Arce. La maestra raccontò di averla vista andare verso il centro e verso la caserma dei carabinieri. Amdava a farsi ammazzare.

Non le credettero. In udienza stettero un’ora a contestare il suo racconto, a dirle che si confondeva tra il giorno del mercato ed il giorno della festa patronale: in entrambi c’erano le banacarelle e lei – le dicevano – poteva essersi confusa.

L’assassino ringrazia.

La stessa Procura che non credette a quesi testimoni, che chiese due volte l’archiviazione per assenza di elementi, ora chiede di aprire un processo a carico dell’allora comandante della stazione dei Carabinieri di Arce, suo figlio, la moglie. Dei due carabinieri che erano di pattuglia e dissero di non avere né visto né sentito perché erano da un’altra parte, traendo in errore la procura.

Non può essere accusato di nulla l’appuntato che quel giorno era in servizio e fece entrare Serena in caserma: per anni ha custodito quel segreto, poi si è liberato del peso e ad un certo punto lo ha rivelato alla Procura. E subito dopo si è congedato dalla vita sparandosi alla testa.

La procura  ora chiede conto anche di questo: c’è l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio.

C’è un dettaglio sconosciuto ai più: tutto questo è venuto fuori perché due ragazzini in divisa, due marescialli di prima nomina, si intestardirono nel voler trovare la verità. E capirono tutto. Soprattutto capirono che quella verità era troppo scomoda. E che a qualcuno poteva non convenire rivelarla. Consegarono subito la loro relazione al capo della Procura.

Tutto è ricominciato così. La dignità dello Stato è salva grazie a due uomini in divisa e due uomini con la toga.

Scusaci Serena per questi 18 anni di ritardo.

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