Stirpe: «Licenziamenti dopo la Cig. E il Paese riparte»

Stirpe
(Foto: Benvegnu' Guaitoli / Imagoeconomica)

Il vice presidente di Confindustria Maurizio Stirpe traccia la rotta. Scomoda. Come tutte le cure radicali. «Licenziamenti dopo la Cig. Con patto sulle tutele e il Paese si rimette in moto»

di Luca Cifoni per Il Messaggero

Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindustria: dopo quello del 2020, anche questo sarà un primo maggio diverso. Non solo per gli effetti della pandemia che ancora ci sono, ma anche per i circa novecentomila posti che si sono persi dal febbraio dello scorso anno.

«I numeri sul lavoro ci devono far riflettere. Abbiamo avuto certamente una perdita di contratti a tempo determinato e di lavoratori autonomi, ma dentro quei 900 mila occupati in meno ci sono anche posizioni a tempo indeterminato, che ora notiamo anche per il diverso criterio statistico usato dall’Istat. Vuol dire che con tutto il blocco dei licenziamenti ci sono state criticità anche per i lavoratori più garantiti. Due punti di tasso di occupazione in meno e anche l’aumento degli inattivi sono dati fortemente negativi. Recuperare non sarà facile, ci vorrà del tempo».

Intanto però proprio sul blocco dei licenziamenti alla fine si dovrà trovare una via di uscita.
Foto: René Fluger / Imagoeconomica

«La strada scelta dal governo di distinguere tra le imprese che hanno gli ammortizzatori sociali e li pagano e quelle che non li hanno o li hanno in misura limitata è stata corretta. Ma ora bisogna fare un passo avanti per ripartire. La cosa migliore sarebbe azzerare il contatore in modo da consentire alle aziende di usare subito le proprie 52 settimane. E contemporaneamente cancellare il ticket aggiuntivo che devono pagare. Così verrebbero meno gli alibi, le imprese sarebbero portate a utilizzare subito la Cig e potrebbero evitare di interrompere rapporti di lavoro».

Una specie di ponte verso il futuro. Ma quale sarà lo scenario successivo?

«La pandemia avrà come effetto quello di accelerare la transizione anche nel mondo del lavoro, da professionalità che saranno meno necessarie ad altre in grado di intercettare il futuro. E allora, piuttosto che dividere le parti sociali, bisognerebbe fare una riforma degli ammortizzatori orientata alle politiche attive. La trattativa è avviata e il governo conosce la nostra posizione, che abbiamo presentato già dallo scorso 16 luglio al precedente esecutivo. Mi pare una soluzione ragionevole e direi anche semplice, praticabile».

L’economia ha frenato nel primo trimestre dell’anno, come era atteso. Ma con la riduzione delle restrizioni e l’aumento delle vaccinazioni sarà in grado di ripartire?

«I numeri diffusi dall’Istat mi sembrano interlocutori. Si può essere prudentemente ottimisti per il futuro, ma questo futuro è tutto da costruire, non è scontato. Le vaccinazioni daranno maggiore certezza, ma non sappiamo tutto sulla loro efficacia, sulla resistenza alle varianti. Un po’ di incertezza resterà e potrà andare via solo gradualmente. Quindi per l’economia non ci sarà un boost violento, come invece si pensava tempo fa. La ripresa ci sarà ma all’inizio sarà a macchia di leopardo, trainata dall’industria, come già è avvenuto in questi mesi, mentre il mondo dei servizi dovrà un po’ ricostruire il proprio ruolo».

(Foto: ELEVATE / PEXELS)
Oltre alle vaccinazioni l’altro elemento a cui si guarda per dare slancio all’economia è il Piano nazionale di ripresa e resilienza che il governo ha appena inviato a Bruxelles.

«Il piano si pone come obiettivo la riduzione di tre tipi disuguaglianza: quella territoriale, quella di genere e quella generazionale che separa i giovani dalla popolazione più matura. In questo senso mi pare che vada nella giusta direzione. Potrà correggere una serie di squilibri precedenti alla pandemia, ma per cogliere l’opportunità serve un’adeguata cassetta degli attrezzi».

A cosa si riferisce?

«Intanto negli ultimi tre anni erano state fatte alcune riforme che hanno avuto un impatto negativo. Mi riferisco al reddito di cittadinanza, nella parte relativa alle politiche attive che purtroppo come abbiamo visto non ha funzionato; al decreto dignità che ha irrigidito i contratti a tempo determinato ottenendo l’effetto di farli sparire durante i mesi del Covid; e infine a Quota 100 che avrebbe dovuto creare tre nuovi posti di lavoro per ogni uscita, mentre come abbiamo visto ha avuto molte meno adesioni del previsto. Bisogna ripensare a tutto questo senza pregiudizi. Giustamente nel Pnrr sono state inserite riforme che possono funzionare da cinghia di trasmissione, aiutarci a spendere i soldi: pubblica amministrazione, giustizia, fisco concorrenza».

Cosa le è piaciuto del piano e cosa invece la convince meno?

«Non voglio anticipare i tempi di una valutazione completa, ma mi pare che le direttrici indicate, ed anche le relative poste finanziarie, siano coerenti con gli obiettivi posti dall’Unione europea. E come dicevo anche le riforme indicate sono positive. Se devo esprimere un dubbio, riguarda la capacità della politica di accompagnare questo piano nella sua durata temporale. L’attuale governo potrà forse arrivare a fine legislatura nel 2023, ma che garanzie abbiamo sulla governance del Pnrr nei tre anni successivi? Il piano è una scommessa che guarda al futuro per creare crescita, che è l’unico modo di ridurre il debito pubblico nei prossimi anni. Speriamo di avere la forza per farlo».

Maurizio Stirpe
Lei ha menzionato gli squilibri territoriali. Oltre al tema fondamentale del Mezzogiorno, c’è anche quello del Centro Italia che ha bisogno di risposte specifiche. Arriveranno?

«Io credo che il nostro Paese se la caverà se sarà capace di far sviluppare tutti i territori secondo la propria vocazione. E questo per il Centro Italia vuol dire non perdere le proprie caratteristiche, quelle che in passato gli hanno permesso di avere tassi di sviluppo quanto meno accettabili. Nella vocazione del Centro rientra naturalmente il ruolo della Capitale che non deve essere messo in discussione, come non viene messo in discussione in altri Paesi europei. Quindi le peculiarità della Capitale, che sono la cultura, il turismo, ma anche la pubblica amministrazione come fattore di spinta alla crescita. Una centralità che permette a Roma di interconnettersi con altre città, ma che ha bisogno per questo di infrastrutture. Vanno completati i percorsi già avviati, servono risorse e volontà politica».

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