Top e Flop, i protagonisti del giorno: martedì 26 luglio 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di martedì 26 luglio 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di martedì 26 luglio 2022

TOP

ANDREA ABODI

Andrea Abodi (Foto: Giulia Palmigiani © Imagoeconomica)

L’asso del centrodestra per il dopo Zingaretti potrebbe essere lui. Il nome di Andrea Abodi è entrato con forza nelle prime discussioni serie sul candidato da schierare alle Regionali del Lazio che si terranno il prossimo inverno. Difficilmente a dicembre, molto più probabilmente a febbraio. (Leggi qui: Zingaretti rompe con il M5S: “Pronto a candidarmi”: Dimissioni? Dopo il voto).

Era il manager sportivo sul quale il centrodestra voleva scommettere alle Comunali di Roma. Ma lui si era dichiarato indisponibile. Ora si riparte da lui: manager sportivo di riconosciuta esperienza è stato presidente della Lega di Serie B per sette anni; estraneo ai Partiti sa però come ragionano e come muoversi al loro interno: ha coordinato il marketing per la candidatura di Roma ai Giochi Olimpici 2004 ed ha fatto parte del comitato per le Olimpiadi 2020; conosce bene i conti: è stato presidente del Credito Sportivo ed consigliere dell’Associazione Bancaria.

Su di lui aveva acceso il disco verde Giorgia Meloni in occasione delle Comunali di Roma; aveva dato il semaforo giallo Matteo Salvini preferendogli Bertolaso e sostenendo che Abodi fosse semi sconosciuto. La scelta di Enrico Michetti fu una catastrofe. (Leggi qui Indiscreto – Spifferi romani (Venerdì 26 marzo 2021).

Standing nazionale, uomo del fare, estraneità alla politica: nelle ore scorse Andrea Abodi ha scalato tutte le posizioni ed al momento è il nome in cima alla lista dei papabili candidati; alle sue spalle c’è il direttore del TG2 Gennaro Sangiuliano che è ancora in corsa ad un paio di lunghezze. Non sarà una scelta immediata. Ma subito dopo il risultato delle Politiche del 25 settembre il nodo verrà sciolto.

Della Serie B ma non di serie B

BRUNO ASTORRE

Bruno Astorre (Foto: Paola Onofri / Imagoeconomica)

Alla fine tutto è andato ad incastrarsi come aveva disegnato lui: Nicola Zingaretti si candida alle prossime elezioni Politiche ma aspetta il risultato prima di decidere quando dimettersi; il che potrebbe anticipare d’un paio di mesi le Regionali rispetto alla loro scadenza naturale di marzo ma evita il voto a novembre chi si stava profilando in caso di dimissioni immediate. Scatta la moratoria totale della discussione sul candidato alla successione del Governatore: verrà ufficializzata nell’incontro di oggi con i vice Segretari regionali ed i Segretari provinciali del Lazio; tutti pancia a terra per affrontare le Politiche. Sintetizzato in termini calcistici: palla lunga e pedalare.

È un piccolo capolavoro politico quello ottenuto dal Segretario Regionale Pd Bruno Astorre. Ha evitato una doppia campagna elettorale fatta all’insegna della velocità: che è sempre un rischio. Ha disinnescato il fronte delle Regionali che rischiava di incendiarsi nel momento meno opportuno coinvolgendo le tre componenti principali: la sua Area Dem, la sinistra di Goffredo Bettini e l’area di Claudio Mancini. Soprattutto la moratoria raffredda la tensione interna, consente a tutti di concentrarsi sulle Politiche in un territorio che sarà strategico, rinviando il dibattito sulle Regionali.

Non da ultimo, tiene in corsa le aspirazioni del suo vice presidente Daniele Leodori sul quale si era compattata quasi tutta la coalizione del Campo Progressista messa su da Nicola Zingaretti. Ma se ne parlerà dopo il 25 settembre.

Se il vertice con Enrico Letta aveva rappresentato un brusco stop al percorso che portava alle Primarie (alle quali Leodori era già attrezzato) la moratoria di oggi manda un segnale di maturità e compattezza politica. Anche agli elettori dell’area. Che sono ancora molto sensibili al dogma dell’unità.

La pazienza del democristiano.

RENATO BRUNETTA

Renato Brunetta (Foto: Sara Minelli / Imagoeconomica)

Di lui è fin troppo facile dire tre cose: che è molto competente, mediamente liberal e non proprio simpaticissimo. E magari proprio su questa ultima caratteristica, grazie ad un mainstream italiano che pesa la politica più per gradimento che per incisività, ci siamo concentrati tutti per troppo tempo. Insomma, Renato Brunetta è uno che le cose le sa ma che fra lui e quelle cose ha sempre messo un muro di acidità basica.

E siccome a noi tipi al di qua della Alpi piacciono più i simpaticoni tonti che i competenti algidi e da noi il body shaming pare valere solo per date categorie l’insuccesso di Renato Brunetta qui in Italia è stato quasi sempre garantito a prescindere da ciò che Brunetta facesse o dicesse. Ecco perché il Brunetta umanissimo delle ultime ore ci è piaciuto perfino di più del miglior Brunetta, non tanto quello a capo della Pubblica amministrazione, ma l’economista.

C’è un antefatto. Durante l’ultimo fine settimana la compagna di Silvio Berlusconi, tal platinatissima Marta Fascina, aveva alluso ad una canzone dell’immenso Fabrizio De Andrè. Quale? La stupenda “Un Giudice”. In cui brilla nettissima la strofa modellata ad arte per far male: “La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo. Fino a dire che un nano, è una carogna di sicuro. Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.

Insomma, la tipa del Cav ha alluso ai “transfughi” da Forza Italia dopo la caduta di Mario Draghi e con lui solidali. E lo ha fatto prendendo quello che lombrosianamente poteva attaccare meglio: Renato Brunetta. La signora Fascina non lo sapeva, ma ha messo in moto una cosa bellissima. Per cui di Renato Brunetta forse per la prima volta da quando è uomo pubblico è emersa (assieme ad un consumato e legittimo senso strategico) una spaventosa umanità.

Un Brunetta che, “sfruculiato” ad arte da Lucia Annunziata sul tema, ha risposto (mentendo). Dicendo che a lui di quell’affondo cretino è importato poco. Poi ha chiarito: “Non per me ma per tutti quei bambini che non hanno avuto la fortuna di essere alti e belli. E che possono avere in me un esempio e dire, ‘ma vedete Brunetta, però tappo come è’…”. Per chiudere poi con un immenso: “Io sono responsabile delle mie idee e di quello che faccio, ma non di essere tappo o nano”.

E all’improvviso si è capito che a “bruciare le fascine” non ci pensa solo il caldo di questa estate rovente, ma anche il calore di una umanità che dovremmo riservare a tutti. Anche a quelli di cui la simpatia la devi stanare. Quelli che la simpatia non se la sono potuta mai permettere.

Gi-gan-te.

FLOP

BERLUSCONI E SALVINI

Silvio Berlusconi, Matteo Salvini © Imagoeconomica, Stefano Carofei

Come il gatto e la volpe, come i due compari delle favole. Hanno messo su un imbarazzante teatrino con il quale dire No alla vittoria di Giorgia Meloni. Quella che le accreditano i sondaggi a due mesi dalle elezioni del 25 settembre. Frutto di una scelta coraggiosa e costosa: restare fuori dal Governo Draghi rinunciando a ministeri e sottosegretariati; un po’ per scelta strategica e molto di più per coerenza politica.

Hanno iniziato a dire che da ora i voti si contano in maniera diversa. E che la designazione del premier non la fa più quello che vince ma i due che perdono, cioè loro. Hanno fatto dire ai vertici del Partito Popolare Europeo che anche in presenza di un voto democratico sarebbe meglio di lei l’ex presidente del Parlamento Ue Antonio Tajani.

Ora. Da uno che scambia una ragazzina di 17 anni per la nipote di Mubarak e pretende che lo Stato italiano ci creda solo perché è una delle sue costose Olgettine ci si può aspettare questo ed altro. Così come non ci si può attendere molto di più da un tizio che dalla Padania vola in Polonia per farsi prendere a pernacchie per le sue amicizie con Vladimir Putin che lì vedono come un demonio.

La cosa avvilente è l’avere pensato che una persona come Giorgia Meloni fosse così allocca da dire si.

Ma più avvilente ancora è la loro ignoranza sulle regole scritte nella Carta fondamentale che dal 1947 regola la democrazia di questo Paese. In base alla Costituzione è il Presidente della Repubblica che decide a chi dare l’incarico di formare il nuovo Governo. E gli accordi interni, le intese fatte all’Orto dei Miracoli di Pinocchio, al Quirinale contano per quello che sono: carta straccia.

Volpi verso la pellicceria