Top e Flop, i protagonisti del giorno: mercoledì 21 settembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di mercoledì 21 settembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di mercoledì 21 settembre 2022

TOP

FRANCESCO DE ANGELIS

Francesco De Angelis

Ha rotto il silenzio. E l’ha fatto nel momento giusto. Ha atteso oltre un mese che tutti dicessero ciò che avevano da dire, sollevassero tutti i dubbi che li attraversavano, portassero tutti gli elementi che avevano. Poi ha parlato lui: Francesco De Angelis, con una lunga intervista che è un esempio di lucidità politica. L’ha rilasciata a Corrado Trento su Ciociaria Oggi.

La scelta dei tempi, dei toni, dei contenuti, sgombra il campo da oltre un mese di chiacchiere e veleni. Non solo quelli innescati dal celebre video che ha immortalato il burrascoso dopocena in cui l’ex capo di gabinetto del Comune di Roma perde le staffe e sbraita come nel suo carattere. Francesco De Angelis disinnesca soprattutto quelli nati all’interno del Pd.

I passaggi chiave sono tre. Il primo tocca quella cena. «Quella sera abbiamo assistito a una lite dei toni e dei modi inopportuni. Direi proprio sbagliati, molto sbagliati. Non a caso il giorno dopo ho chiesto personalmente scusa al proprietario del locale a nome di tutti. Ed oltretutto tutti si sono scusati con tutti. La questione è finita lì. Tutto quello che ne è seguito è frutto di notizie prive di fondamento illazioni, falsità e ricostruzioni fantasiose». C’entrava il calcio ma c’entrava anche la politica. «Certamente c’erano delle tensioni politiche, che però sono normali in un Partito pluralista come il nostro. E che si acuiscono nel momento in cui si avvicinano le consultazioni elettorali. È un fatto che avviene in tutti i Partiti che hanno una dialettica interna».

C’è poi il passaggio sul prossimo candidato alle Regionali. La realtà è che ad accendere la discussione è stato davvero il rigore negato nel derby romano: ma dietro c’erano le tensioni sul candidato che la potente componente di Francesco De Angelis avrebbe appoggiato come Governatore nel dopo Zingaretti. Per un lungo periodo De Angelis è stato sul vice presidente Daniele Leodori, poi i suoi riferimenti romani hanno messo in campo Enrico Gasbarra.

«Stiamo parlando di due figure importanti e prestigiose del Partito Democratico. Come del resto lo è anche Alessio D’Amato. Ho partecipato all’iniziativa di Leodori per un giusto riconoscimento al grande lavoro svolto da Daniele in questi ultimi cinque anni e ho profonda stima di lui. La scelta di Enrico Gasbarra, sulla quale Pensare Democratico stava riflettendo, riguardava l’appoggio ad una candidatura in quel momento sostenuta livello regionale da tutta la mia area politico culturale. Resto convinto del fatto che prima ancora della scelta del candidato servisse e serviva ancora oggi una discussione sull’opportunità di costruire una larga alleanza politica».

Nelle parole di Francesco De Angelis mai nulla è casuale. In questa risposta parla dell’appoggio a Gasbarra usando il passato: “Pensare Democratico stava riflettendo (…) riguardava l’appoggio”.

Luca Fantini e Francesco De Angelis

La domanda centrale è anche un’altra. Pensa che la diffusione del video sia stata un’operazione di fuoco amico cioè un’operazione all’interno del PD? E perché eventualmente? La risposta è «Assolutamente no». Fine dei sospetti di complotto, fine dei dubbi sulle altre sensibilità interne sollevate a caldo da una parte della componente.

Ora si torna alle Politiche. Pare che siano stati i vertici regionali del Pd a chiedere a De Angelis di far sentire la sua voce e serrare i ranghi. Sul futuro, sulle prossime Regionali, si ragionerà dopo. Ora c’è da fermare le destre. Ma soprattutto l’ala di centro e del M5S che si preparavano ad occupare le macerie. Quelle che De Angelis ora ha tolto di mezzo.

Il risveglio del leader.

CRISTIANO GULIA

Cristiano Gulia

Fa il tatuatore da oltre vent’anni. Ha il suo studio a Sora, frequentato anche da più di qualche vip. È finito al centro dei riflettori perché ha detto no. No ad una madre che tentava di convincerlo a tatuare una rosa sul collo del figlio quindicenne.

Una scelta di serietà e di etica. Che pesa doppio in un periodo nel quale se ne sono perse quasi del tutto le tracce. Un’etica in base alla quale “non si tatuano mani, faccia e collo: in passato l’ho fatto per amore dell’arte ma solo su colleghi che avevano già tutto il corpo tatuato”.

La ragione non è morale: non sta nel fatto che un tempo, lì si tatuavano solo i delinquenti. La ragione sta nel fatto che è dannatamente vero quello che cantava J-Ax con Articolo 31: “I tatuaggi fanno male anni dopo che li hai fatti: ma per quello che ricordano”. E tatuare qualunque cosa sul collo di un quindicenne significa incatenarlo per tutta la vita ad un modello culturale ed uno schema dal quale non si potrà più liberare. Perché la lunghezza della catena è fino allo specchio del bagno: appena vedi quella rosa sul collo ti ricordi che fai parte di quel modello di pensiero.+

Invece i quindicenni hanno tutto il diritto di sbagliare e di ripensare le loro vita, fare errori e poi correggerli, imboccare la strada sbagliata e tornare indietro; compito dei genitori è dargli le indicazioni giuste per non prendere la strada sbagliata e per capire quale sia quella migliore nella quale incanalarsi; insegnandogli che non bisogna avere paura di tornare indietro.

È l’esatto contrario di quello che rappresenta una rosa tatuata sul collo.

L’opera migliore del maestro Gulia

FLOP

CARLO CALENDA

Carlo Calenda (Foto: Andrea Panegrossi © Imagoeconomica)

Fedele al suo mood centrista Carlo Calenda passa dal Flop al Top con la stessa naturalezza con la quale è passato dall’abbracciare Enrico Letta a mettergli il cappio dell’incoerenza al collo. Il leader di Azione e front man del Terzo Polo orfano di Mario Draghi ma non domo dal draghismo ha detto una cosa molto interessante. Una cosa che fa di lui una specie di “pompa inverter”, come quelle su cui Roberto Cingolani ci sta dicendo di essere parsimoniosi.

Quale? Innanzitutto che non è affatto vero che il centro destra a guida Giorgia Meloni al voto del 25 settembre sarà cannibale. Poi che questa sua vittoria, certa ma non antropofaga, creerà tanti di quei problemi che alla fine si arriverà alla “sua” soluzione, nel senso di quella di Calenda.

Quale? Una maggioranza Ursula con Draghi sciolto dai voti di charme nell’esecutivo uno e libero di prenderne di nuovi con un esecutivo due. E secondo Calenda potrebbe essere un esecutivo a “maggioranza Ursula”, con Forza Italia salassata ma obbligata dal Ppe a rispettare il mandato europeista, con una Lega epurata da Matteo Salvini e tenuta a barra dai governisti e con una Meloni impossibilitata a governare.

L’analisi di Calenda non ha il difetto della fantasia eccessiva ma ha quello, di venia, del “calendismo”. Cioè di un approccio sistemico ai problemi complessi dell’Italia in cui il Terzo Polo è centrale prima ancora di una investitura certificata dalle urne. E declinato nonostante i no dei protagonisti: non solo Draghi ha detto di non essere disponibile alla bisogna ma anche il Partito Democratico sta dicendo in tutte le lingue che non intende fare parte di maggioranze rabberciate; chi vince governa e chi perde va all’opposizione.

Ma qualcosa dell’analisi del leader di Azione sembra avere il dono dell’obiettività a prescindere: le immense difficoltà che Giorgia Meloni avrà sia a recuperare skill sul suo euroscetticismo, come dimostrato dallo struscio di queste ore a Vox che a duellare con il segretario del Carroccio, da cui ormai la separano cose grevi e basilari.

Al Messaggero Calenda ha chiosato con un guasconissimo “noi puntiamo al 13% e Meloni non ce la farà a governare”. Sulla prima parte il beneficio del dubbio ci sta, sulla seconda avere dubbi significa non aver capito che anche nel centrodestra ci sono fratture. E in politica vederne solo da una parte è errore da lapis rosso.

Calenda e il calendario.

QUELLI DEL TEATRO DI LATINA

Il Teatro di Latina ora è agibile. È stata rilasciata la certificazione tecnica che lo attesta. Ci sono voluti 33 anni, sei sindaci (qualcuno in carica più d’una volta), tre commissari prefettizi. Non è una storia di mala burocrazia. Peggio. La storia del teatro di Latina è la sintesi di come si ragionava una volta e come non si dovrebbe mai più fare. Perché un tempo le opere non si facevano per rispondere ai bisogni della città: ma per bandire gli appalti. Erano loro ad alimentare la politica come poi venne scoperto negli anni Novanta.

Perché il Palacultura di Latina nacque già vecchio. Progettato per 3,9 miliardi di lire ne costò invece 9,5: cose normali nella prima Repubblica dove le varianti in corso d’opera e gli adeguamenti dei prezzi erano spesso linfa vitale per il sottobosco politico. L’importante era appaltare. E fu così che quel teatro alla fine vide la luce: ma solo quella del sole, perché l’impianto elettrico non era già a norma, le regole nel frattempo erano cambiate e allora bisognava riappaltare in un giro infinito che alimentava sempre di più il sistema. E non solo la linea elettrica. Ma anche quella dei termosifoni e dell’aria condizionata.

Le ditte costruivano come gli veniva chiesto: nessuno correggeva. Poi, consegnata l’opera, ci si accorgeva che non rispondeva alle nuove norme. E avanti con i cantieri. Nel caso di Latina, si legge dalle carte che “gli impianti non risultano collaudabili in quanto non rispondono alla normativa vigente. Tale difetto non è imputabile all’impresa in quanto l’attuale normativa è posteriore all’esecuzione delle opere”.

Per anni si è andati avanti con le autorizzazioni in deroga, spettacolo per spettacolo. Poi, con la fine della Prima Repubbliche s’è dovuto iniziare a mettere le mani sul serio ed una volta per tutte a quel teatro. Con il risultato di dover ricertificare tutto: perché mancando un collaudo iniziale è stato come certificare un’opera nuova con normative che nel frattempo sono cambiate di sana pianta. Ci sono voluti 32 anni.

Silenzio, ora si va in scena.

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