Top e Flop, i protagonisti del giorno: venerdì 11 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di venerdì 11 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di venerdì 11 novembre 2022.

TOP

ENRICO LETTA

Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica

Per una volta ha indovinato il tempo giusto. Facendo la cosa migliore nel momento più adatto. Così chirurgico da far pensare che il Pd sia proprio il Pd: estenuanti discussioni sul nulla accompagnate da veleni e coltellate alla schiena che finiscono come per magia appena il Segretario dice “Bene signori, ora la sintesi”. Come avvenuto ieri pomeriggio. Negli stessi minuti in cui Nicola Zingaretti annunciava la fine ufficiale dei suoi dieci anni da Governatore del Lazio, il Partito per voce del Segretario Regionale Bruno Astorre ufficializzava il nome del suo candidato alla successione, Alessio D’Amato. Una sintesi sulla quale il Segretario Enrico Letta ha avuto un ruolo centrale.

Piaccia o meno, Enrico Letta alla forma ed alla sostanza di ciò che dice ci crede davvero. Il segretario uscente del Partito Democratico non è certo immune da colpe nell’ultima sconfitta elettorale del 25 settembre, ma è pur vero che la sua colpevolezza è anche la somma di tante condotte sbagliate che su di lui sono andate a fare massa critica nel momento in cui la debacle ha bruciato di più perché a vincere è stato il destra-centro e non il centro-destra.

Insomma, Letta ha sulle spalle i panni umidi e grevi del reo ma non sono solo panni suoi, sono abiti intrisi della boria di un Partito che da oltre un decennio non parla più ai poveri e non cerca la base primordiale di quando al Lingotto la si volle blandire con sogni di giustizia sociale concreta. Esattamente il male che Nicola Zingaretti denunciò quando mandò tutti a quel paese e si dimise da Segretario.

Ecco perché la lettera di Letta agli iscritti inviata nelle ore scorse pare più atto di sincero candore che sfregio ipocrita. Ha scritto Letta ai “suoi” tesserati: “Care democratiche e cari democratici, siamo immersi in un tempo unico e fuori dall’ordinario. È arrivato il momento di reagire e costruire insieme il nostro futuro”.

E ancora: “Il bivio che abbiamo dinanzi è tra camminare col solo vecchio bagaglio e gli stessi riti o accettare una sfida che esige risposte nuove e ambiziose“. Poi sull’ambizione di quelle risposte Letta ci ha messo anche la sue sorti, quelle cioè di un “condottiero” che (forse) non ha più truppe ma che riconosce che bisogna fare un diverso tipo di “guerra”.

Per questo e per altri motivo molto meno retorici di quanto non suggerisca il tipico lessico millenarista dei Dem, Letta chiede a gran voce una “stagione costituente, una pagina da scrivere nella quale chi vuole possa trovare uno spazio vero, vivo, dove partecipare senza deleghe, sulla base dei suoi valori e convinzioni”.

Non un Congresso come tutti gli altri allora, ma un percorso costituente“. E quindi? Non si tratterà di limare ma di rifare, e il messaggio ai necrofagi interni che speravano di far coincidere il cambiamento del sistema con la sola esautorazione di chi ne stava al vertice quando le ha prese è arrivato forte e chiaro.

Abbiamo un Segretario: nobile e furbo.

ENZO SALERA

È la medicina amara per il Partito Democratico. Quella che devi mandare giù a cucchiaiate anche se per aprire la bocca occorre un grimaldello. Enzo Salera è quanto di più lontano esista dal sistema che il Pd è stato in questi anni in provincia di Frosinone, nel Lazio sud, in Italia. Proprio per questo è la medicina di cui ha bisogno una formazione che è in evidente crisi di rappresentatività, di appeal e di consensi.

Il suo niet alle strategie che la Segreteria Provinciale sta portando avanti a fari spenti per eleggere il prossimo presidente della Provincia di Frosinone non dice no all’accordo trasversale con pezzi del centrodestra. Che alla fine non è assolutamente una novità: Antonio Pompeo venne eletto con i voti di Forza Italia ed un patto con Mario Abbruzzese; ha governato con l’appoggio esplicito di Fratelli d’Italia e Daniele Maura alla presidenza d’Aula. Enzo Salera dice no al modo in cui ci si sta arrivando: non inclusivo, verticista, tipico di un Partito che è lontano dalla base.

Vero è che fino alla definizione del quadro per le Regionali era impossibile avviare un confronto serio sulle Provinciali. Altrettanto vero è che il dialogo del Pd con FdI non verrà mai dichiarato. Tanto quanto non lo sono stati quelli di Antonio Pompeo con Forza Italia (primo e secondo mandato), con Fratelli d’Italia (terzo mandato) con la Lega (quarto mandato).

Ma non si può negare che una parte del Pd si senta tagliata fuori dai centri decisionali. Il Segretario Luca Fantini in questi giorni sta concordando con la Segreteria un incarico centrale per Enzo Salera nel governo del Partito. È già un risultato.

La convocazione dei sindaci Dem al Teatro Manzoni per parlare di Provinciali scavalcando il Partito è un atto dirompente. Determinerà dolori di pancia, reazioni intestinali: ma avrà il merito di contribuire alla rigenerazione di un Pd che è entrato in crisi proprio perché ha tenuto fuori voci come quella di Salera e dei suoi sindaci. (leggi qui: Provinciali, Salera convoca i sindaci: «Mai i nostri voti ad un inciucio»).

Medicina amara.

FLOP

ALESSIO D’AMATO

Alessio D’Amato

Ha riempito il teatro Brancaccio. Ha avuto il merito di crederci. È lui il candidato alla successione di Nicola Zingaretti in Regione Lazio. Ma non è ancora un candidato di sintesi, non è ancora l’uomo di tutto il Partito. E soprattutto non è l’uomo del Campo Larghissimo costruito in questi anni.

Il segnale è chiaro. Troppi assenti nel teatro che lo ha incoronato erede di dieci anni di centrosinistra. Non che ci fossero poltrone vuote: tutt’altro. Ma mancavano nomi e volti. Con Alessio D’Amato c’erano i sorrisi di Calenda e Azione, dei renziani al seguito di Maria Elena Boschi, il migliore mondo della sanità romana, Corrado Augias a fare da testimone. Ma mancava il Governatore uscente Zingaretti, mancava il suo vice Leodori, mancava buona parte della squadra con cui ha governato, mancavano le figure di riferimento di questi anni. (leggi qui: Regionali, Astorre: «Alessio D’Amato è il candidato del Pd»).

È stato brillante sul palco: convincente, pragmatico, dritto al punto. L’uomo che per due anni ha indossato mimetica ed elmetto per combattere la sua personale battaglia contro il Covid rivoluzionando la Sanità del Lazio ed organizzando una delle migliori reti di vaccinazioni in Italia ora dovrà centrare in fretta il suo primo risultato. Che è quello di diventare anche nell’anima il candidato unitario del centrosinistra.

Una soluzione potrebbero essere le Primarie. Ci mette cinque minuti il Pd ad organizzarle. Coinvolgendo nomi come l’ex vice presidente ed oggi deputato Ue Massimiliano Smeriglio, la capogruppo della civica di Zingaretti Marta Bonafoni, il vice presidente in carica Daniele Leodori.

Il primo, vero grande trionfo di Alessio D’Amato sarebbe quello di avere l’investitura dal Popolo Dem. Che darebbe piena legittimazione e cancellerebbe ogni residuo delle estenuanti discussioni avvenute in questi mesi. Perché Alessio D’Amato le doti per fare il candidato le ha: lo ha dimostrato nella sua battaglia ventre a terra per arginare l’arrivo della pandemia. Ma altrettanto è vero che i dieci anni di Zingaretti hanno messo in luce figure di analogo spessore, come quella di Daniele Leodori che gode di seguito e consenso sui territori..

Ed una candidatura unitaria anziché una divisiva è fattore determinante tra vittoria e sconfitta. Soprattutto in questa fase.

Candidato part time.

GIORGIA MELONI

Giorgia Meloni

La luna di miele è già finita, l’ora in cui si fa sul serio è già scoccata. La Francia fa la voce grossa con il nuovo governo italiano: schiera la polizia alle Frontiere e sospende l’accoglienza prevista per 3.500 rifugiati attualmente in Italia. Che il piano di ricollocamenti europeo prevedeva fossero redistribuiti. Non basta: Parigi ha anche invitato gli altri Paesi europei a fare lo stesso.

Un po’ per uso interno un po’ per uso Europeo, Parigi usa la crisi dei migranti della Ocean Viking per ricordare chi è alla guida dell’Europa: Parigi stessa e Berlino. E non lo fa con la risatina irriverente di Sarkozy e Merkel: lo fa con un calcione negli stinchi di Giorgia Meloni. Per ricordarle che la caciara alla Garbatella è una cosa, guidare un Paese su uno scenario internazionale è ben altro. Per informazioni citofonare Draghi, con il quale i francesi andavano d’amore e d’accordo e con loro le relazioni bilaterali.

Non è una catastrofe, non è un precipizio: per Giorgia Meloni è solo un segnale. Anche perché, sfogliano la sua agenda, il round con il segretario generale della Nato era quello decisivo per accreditare Giorgia Meloni come premier “ortodossa” e lei non ha deluso le aspettative. Il faccia a faccia con Jens Stoltenberg era molto diverso da quelli che la Meloni aveva avuto finora nei suoi giorni novembrini di “battesimo foresto”.

Lo era per due ragioni sostanziali. Innanzitutto per la natura dell’incontro. Ha messo a contatto la ricetta di un Paese della Nato con il vertice assoluto dell’Alleanza atlantica, cioè con gli Usa. Non certo con l’Europa. Poi perché avere come interlocutore Stoltenberg significa doversi confrontare con il più falco fra i falchi nel novero di coloro che senza riserve stanno con l’Ucraina e contro la Russia.

Si badi. Il “peccato originale” del governo Meloni non è quello di colei che a quel governo dà il nome ma c’è e resta tutto. Ma le presunte ambiguità, gli endorsement passati, le strusciature alternate della Lega di Salvini . E in maniera più ambigua e freak gli azzurri di Berlusconi avevano avuto con il metaverso bullo di Vladimir Putin. Erano l’ultima sbavatura che Giorgia Meloni doveva detergere prima di tornarsene a Palazzo Chigi con le stimmate atlantiche.

La premier lo sapeva benissimo. Con Stoltenberg ha giocato all’attacco che è un po’ come colpire lo squalo sul muso mentre ti apre la bocca intorno alla coscia. E Meloni ha ribadito che la vocazione atlantica dell’Italia non solo è intangibile ed indiscutibile, ma che era oggi più che mai rappresenta la rotta attraverso cui la premier vuole guidare il Paese.

Attenzione. Sembrano temi banali e protocollari ma non lo sono: protocollari erano i sorrisi con la von de Leyen e i bacetti con la Metsola che è arcigna almeno quanto la Meloni, ma con Stoltenberg no, di giocare o di andarci morbidi non era il caso.

Meloni lo ha capito ed ha riscritto il copione ad uso e consumo di Washington, in attesa di incontrare chi da lì detta le regole atlantiche vere.

Georgia on my mind.