Top e Flop, i protagonisti del giorno: venerdì 4 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di venerdì 4 novembre 2022

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire, attraverso di loro e quanto hanno fatto, cosa ci attende nella giornata di venerdì 4 novembre 2022

TOP

BENEDETTO DELLA VEDOVA

Benedetto Della Vedova (Foto: Carlo Lannutti © Imagoeconomica)

Una volta con “Carletto” Calenda c’era feeling, poi era arrivato il voto del 25 settembre e gli incastri avevano disincastrato +Europa ed Azione con lui, Benedetto Della Vedova, a seguire Emma Bonino verso un destino d’urna gramo ma per certi versi eroico. Eroico come eroica è stata la difesa di Della Vedova dagli attacchi del suo ex sodale in ordine alla questione Soros.

Quale questione? Nulla di che, a contare che George Soros è da sempre un mecenate in chiave anti sovranista. Sborone come tutti quelli che i danè li hann davvero. Lo stesso in passato aveva mollato sghei a +Europa per compiere la mission insita nel suo nome e Calenda aveva ritirato fuori la faccenda travestendola da scheletro nell’armadio.

E Della Vedova, che è noto per essere uno sherpa con cui non conviene duellare sulle lunghe distanze perché è falso pacioso come gli Shar-Pei, ha replicato: “Noi facciamo politica per convinzione e non per convenienza, al punto di sfidare la soglia del 3%. Era davvero la cosa meno conveniente che potessimo fare mantenere l’alleanza, se avessimo ragionato sulla base dell’interesse di Partito”.

Poi sul quotidiano Libero, Della Vedova ha parlato di soldi e di quando di soldi aveva parlato con Calenda: “Con lui abbiamo parlato una sola volta di budget, per dieci minuti. Gli dissi che avremmo fatto la nostra parte con i nostri finanziatori e i nostri candidati”.

E ancora: “Lui mi chiese se c’era anche Soros, che ci aveva notoriamente sostenuto anche in passato. Non avendo nulla da nascondere, ovviamente gli dissi di sì”. Poi Calenda si era sfilato dai fumi del Nazareno etc etc. Il tutto fino alla stoccata finale di Della Vedova: “Mi viene da pensare che Calenda abbia cambiato idea perché pressato dai suoi finanziatori, ma sarebbero fatti suoi”.

Tomo tomo, cacchio cacchio.

CRISTIANO TATARELLI

Il questore Cristiano Tatarelli

È un mastino. Ma di quelli che non ringhia. Nulla a che vedere con Milano Calibro 9 o con Napoli Violenta ed i cliché dei poliziotti duri e spietati affidati alla cellulode. Cristiano Tatarelli è un mastino di quella Polizia di Stato che negli anni Novanta ha cambiato pelle: prediligendo l’acume investigativo, i nervi saldi, un bilanciato pesto di freddezza ed umanità.

Per fargli le ossa, appena uscito dalla Scuola di Formazione, il vice commissario nato a Lenola viene spedito in Sicilia: al Commissariato di Gela. E siccome dopo un paio d’anni è ancora tutto intero lo mandano a dirigere il Commissariato di Taurianova nella non tranquillissima piana calabrese. Deve essergli sembrato un resort il periodo di metà anni Novanta quando gli assegnano la Squadra Mobile di Frosinone. E invece riesce a mettersi in evidenza pure lì: torna il senso di squadra, l’affiatamento, i risultati arrivano.

I clan investono sul Golfo e così Cristiano Tatarelli, con i gradi da vicequestore sulla giubba, va a dirigere il Commissariato di Formia poi la Squadra Mobile di Latina dove alle vecchie mafie si aggiungono i nuovi clan Rom con le stesse tecniche violente. Per festeggiare i gradi da Primo Dirigente se ne va in quel villaggio vacanze della criminalità chiamato Scampia appena affrescato dalla pubblicazione del libro Gomorra. Tanto per avere una visione d’insieme se ne va a Milano a fare il Vicario, lì dove la mala di ogni latitudine va ad investire e lascia la lupara per indossare una comoda camicia bianca.

Nello scorso mese di marzo, il poliziotto di Lenola viene promosso questore. Ed in queste ore gli hanno dato la sede. Una di quelle tranquille che piacciono tanto a lui: Vibo Valentia. Una passeggiata di salute per uno con il suo curriculum, una garanzia per il personale che andrà a dirigere, una rogna per l’altra parte di mondo che non sta con lo Stato.

Il mastino che non ringhia ma azzanna.

FLOP

CARLO CALENDA

Carlo Calenda (Foto: Paolo Cerroni © Imagoeconomica)

Scusate, ci siamo sbagliati”: nei mesi scorsi Carlo Calenda è stato protagionista di uno dei più clamorosi voltafaccia nella storia recente della politica nostrana. La sera ha firmato il patto con il Pd che avrebbe arginato la vittoria del centrodestra rendendo contendibili molti seggi di Camera e Senato: l’indomani mattina anziché presentarsi al brindisi di festeggiamento è andato da Lucia Annunziata per dire che se ne faceva più nulla.

Memore del risultato ottenuto alle Politiche vorrebbe replicare la scena anche alle Regionali. E regalare pure il Lazio al Centrodestra dopo avergli virtualmente consegnato decine di seggi parlamentari. Sordo alle segnalazioni che gli arrivano dalla base e dai quadri regionali è entrato nel campo del Pd imponendo il suo diktat: “O noi o loro”, con ‘loro‘ che sono i post grillini di Giuseppe Conte che solo a sentirli nominare a mezzo Pd viene l’orticaria. Ma Carlo Calenda sta riuscendo nella mission impossible di renderli quasi simpatici e potabili.

Nelle ore scorse ha ripetuto per la terza volta che «Noi siamo il centro, il Pd deve decidere se guardare verso il centro o il M5S». E quando dal Lazio ha notato una certa indifferenza di fronte alle sue minacce politiche (vuoi per i numeri scarsini, vuoi per l’affidabilità poco palpabile) ha alzato la tacca di mira. Mettendo nello stesso bigoncio il Lazio e la Lombardia: «Non è che in Lombardia fai un accordo con noi e nel Lazio con il M5S. Per me l’accordo si fa sulle due Regioni o non si fa e ognuno va per conto suo».

Ora aspetta una risposta. Senza rendersi conto di due cose. La prima: senza un accordo con il Pd, Azione in Regione Lazio passa dalle file del Governo ad una flebile rappresentanza non necessaria ad alcuno. La seconda: il Modello costruito da Zingaretti ha retto perché costruito su valori del tutto opposti a quelli di Calenda e cioè i progetti.

Dei quali, finora, Carlo Calenda non è stato capace di dire una sola parola, se non che vuole il termovalorizzatore a Roma. ma quella non è competenza della Regione.

Il riabilitatore di Conte.

RITA DALLA CHIESA

Rita Dalla Chiesa (Foto: Carlo Lannutti © Imagoeconomica)

Lo ammettiamo, il personaggio piaceva molto in tv, specie perché ipnotizzava le mamme quando tuffavamo empie fette di pane nel sugo rovente per assaggiarlo. Piace molto meno in punto di ideologia, ma si sperava in un ravvedimento nelle forme del linguaggio.

Lo si sperava perché quello che porta Rita Dalla Chiesa è un cognome che è diventato icona di sintesi, analisi spicce ed ordini secchi urlati per fare cose presto, bene e senza fronzoli di parola. Si, lo ammettiamo: ancora oggi guardare Rita Dalla Chiesa significa, o dovrebbe significare, scorgere gli alamari del papà.

E quindi l’errore è nostro che confondiamo la mistica di un eroe ammazzato con i fatti del tutto autonomi della sua schiatta. Che vive e ovviamente non è immune da piccinerie precluse a chi è stato consegnato alla storia. Piccinerie come quella di definire il Berlusconi di oggi “l’uomo più carismatico d’Italia”.

Insomma, invecchiare ha i suoi vantaggi ma fa perdere la mistica; è un po’ come se oggi un Jimi Hendrix mai morto dovesse portare il pannolone, ci scadrebbe ecco. Però un fatto c’è e va detto: a Carta Bianca Rita dalla Chiesa, che è fresca parlamentare azzurra, ha detto la sua sul reddito di cittadinanza. Spiegando che per lei “va mantenuto solo per alcuni“.

La deputata di Forza Italia ne ha avuti di argomenti. Le perquisizioni a carico di chi lo prendeva lavorando e le truffe di chi lo aveva chiesto non avendone diritto. E Dalla Chiesa che ha fatto Forum, che cioè conosce la legge come uno scooterista conosce il Mugello, alla fine ha sciorinato la summa del suo pensiero sulla misura voluta dai Cinquestelle: “Tutti noi vorremmo che le persone vivessero con dignità e non sopravvivessero”.

Ecco, dopo quel “vorremmo” ci siamo iniziati a chiedere perché mai la deputata Dalla Chiesa non abbia chiosato la frase con il logico “ma non possiamo”. O con l’evidente “ma non vogliamo”. Al di là cioè della militanza politica in un Partito ed in uno schieramento che la misura del RdC legittimamente la osteggia, da Rita Dalla Chiesa ci si sarebbe aspettato qualcosa si più definito.

Magari un po’ più di empatia. Soprattutto per chi il RdC lo perderà avendone bisogno. Invece è stata un concentrato di antipatia per chi lo perderà avendolo gabellato. E fra i 600mila su cui sta per cadere la scure del governo Meloni è impossibile pensare in punto di logica che nell’Italia di oggi ce ne siano almeno metà che troveranno lavoro entro due o tre mesi. Queste sono palle assolute.

Perciò è lecito pensare che la metà di quella metà dovrà saltare a breve il fosso della legalità. E che la metà di quella metà dell’altra metà lo salterà finendo nei ranghi bassi delle mafie. Le mafie, le stesse che gli alamari del papà di Dalla Chiesa li macchiarono di rosso.

E che proprio lei non abbia visto il rischio a noi è parso grave assai.

Spegni la tv.

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