Top e Flop, i protagonisti di giovedì 4 maggio 2023

Top & Flop. I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 4 maggio 2023

TOP

PAOLO GENTILONI

Paolo Gentiloni (Foto: Daina Le Lardic via Imagoeconomica)

Se c’è una cosa che in testa a Giorgia Meloni è sempre stata rovello assoluto quella porta il nome del Patto di stabilità. Non i migranti, non il “durismo” democratico, ma lo sforamento dai conti pubblici come gancio di sovranità nazionale e come margine di manovra per aggiustarsi le cose in casa e non in condominio.

Da questo punto di vista perciò le nuove regole Ue sui conti pubblici e sul patto di stabilità arrivano a mettere suggello alla Madre di tutte le Battaglie di una leader politica che è oggi è capo di Governo, e che dell’Europa deve essere sparring attiva, non marcatrice stretta.

In questo contesto si è inserita l’azione sottile di Paolo Gentiloni. Il Commissario Ue all’Economia ha dovuto fare come gli ufficiali di complemento che avevano il “paesano” in plotone: coniugare cioè rigore e familismo sciapo per non scontentare nessuno, ma in rigide proporzioni non equanimi.

Il dato è che Bruxelles punta ad un aggiustamento dello 0.5% se il deficit supera il Pil del 3%. Ergo ogni stato membro dell’Ue non può sforare se non a precise condizioni e che adesso quelle condizioni potrebbero essere meno rigide e “modellate” sulle singole situazioni nazionali. Però c’è una novità di rigore: chi sfora incappa nella procedura di infrazione non più dietro istruttoria ma in automatico.

Il “poliziotto cattivo” sul tema è stato il vice di Gentiloni, Valdis Dombrovskis, che sul patto di stabilità ha avvertito: “Gli Stati non potranno più rimandarlo“. E Gentiloni? Si è giocato benissimo la matta dell’amico in fureria ed ha detto che la nuova versione “promuove una maggiore titolarità nazionale attraverso piani strutturali di bilancio a medio termine preparati dagli Stati membri”.

Il tutto garantendo “contemporaneamente la parità di trattamento e la considerazione delle situazioni specifiche dei singoli Paesi“. E ancora, per Gentiloni le nuove regole consentiranno “un’applicazione più credibile, fornendo agli Stati membri un maggiore margine di manovra nella definizione delle traiettorie di bilancio“.

Poi la chiosa economica: “È nell’interesse di tutti gli Stati membri. Rassicurerebbe i mercati finanziari e gli investitori. Darebbe ai Governi chiarezza sulla strada da seguire, considerando anche la disattivazione della ‘clausola generale di salvaguardia’ alla fine di quest’anno“.

E così facendo Gentiloni ha dato fedele seguito ad un doppio ruolo nel quale pochi altri si sarebbero potuti barcamenare bene come ha fatto lui. Perché ha blandito il suo Paese senza sconfessare il suo ruolo, che al suo Paese guarda con amichevole sospetto.

Cerchio e botte, ma con classe.

AMEDEO DI SORA

Amedeo Di Sora

Sono le radici a dare forza. Da lì arriva il nutrimento, strappato alla terra e portato fino alla più lontana punta delle foglie sulla chioma. Le radici danno solidità: non temono vento né tempesta. È grazie a loro che resistiamo, restiamo in piedi, affrontiamo al mondo. E Amedeo Di Sora è una delle radici più profonde per il giornalismo nella provincia di Frosinone: l’ultimo di quelli che facevano il ‘giro di Cronaca‘ andando materialmente a piedi dai carabinieri, al Pronto Soccorso ed in Questura. Anzi, a piedi no: lui negli anni Sessanta aveva l’abbonamento alla circolare; il che lo rendeva già all’epoca un nobile.

Conosce Frosinone ed i suoi segreti meglio di chiunque altro. Perché li custodisce. Ad onore del mestiere: in pagina non va il pettegolezzo o la calunnia. Ma sulle notizie non c’è margine di sconto: non risulta che ne abbia mai fatti nella sua lunga ed invidiata carriera. Conosce Frosinone, il suo dialetto e le sue costumanze come pochi altri. Per tutto questo può permettersi di parlare di un argomento serio diventato purtroppo materia per profani: il giorno di santa Fregna.

Tradizionalmente, il 3 maggio a Frosinone viene celebrata Santa Elena Flavia Giulia, madre di Costantino l’l’imperatore che ebbe in sogno la visione di una croce fiammeggiante alla vigilia della battaglia decisiva di Ponte Milvio e la fece disegnare su tutti gli scudi del suo esercito. Fu Santa Elena Flavia Giulia, secondo la tradizione cristiana, a far ritrovare i resti della vera Croce santa sulla quale Cristo affrontò il martirio.

Ma se si passa dal sacro al profano, la ‘croce’ di buona parte del mondo maschile è identificabile con il sesso femminile: il cui desiderio rimane troppe volte insoddisfatto. Da qui la profana associazione del 3 maggio: per indicare la grande sofferenza viene detto il giorno di “santa fregna “.

Ma da vero gentleman d’altri tempi, elegante custode del garbo e dello stile, in queste ore Amedeo Di Sora ha voluto riservare una delle sue celebri stoccate di sciabola a chi abusa del termine. E del concetto. Scrivendo “Mi permetto di ricordare agli sfigati che oggi sembrano ancor più morti di figa che Santa Fregna si festeggia non solo il 3 maggio ma ove possibile e fattibile tutti i giorni. Alle devote signore e signorine consiglio di non dimenticare una preghiera di ringraziamento giornaliera specie alle tantissime che senza l’intercessione della Santa non vivrebbero una vita agiata e soddisfacente”.

Spadaccino d’altri tempi.

FLOP

FRANCESCO BOCCIA

Francesco Boccia (Foto Imagoeconomica)

Negli ultimi giorni è stato impegnato a mettere la toppa al buco creato dal cambio di casacca di Enrico Borghi che ha mollato il Pd in favore di Italia Viva. Una cosa che per un dem ortodosso come Francesco Boccia è molto vicina alla Giudecca e sta poco dopo la Tolomea degli inferi. Tuttavia quello che a Boccia si contesta non è il merito di ciò che attribuisce all’ex membro del Copasir in quota Nazareno. Bensì il contenitore nel quale lui ha spadellato i suoi ragionamenti, sul caso e sui suoi strascichi di maggio.

Boccia era suo modo partito bene utilizzando una frase boomerang proprio di origine dem. Ed aveva detto su Borghi: “Mi sembra che il miglior commento lo abbia fatto il gruppo dirigente del Pd del suo territorio. Personalmente penso che non siamo in Parlamento a rappresentare solo noi stessi.

Insomma, il sunto è che il principio di rappresentanza prevale sempre su quello di identità personale, ci sta tutto. Poi ha detto Boccia: “E sinceramente non vedo le ragioni che motivino la sua scelta, né nel merito, né nel metodo. Si discute, ci si confronta, ci sono sensibilità diverse, ma il Pd è una grande comunità”.

Eccola, la manfrina sempiterna. Sulla scorta della quale il Partito democratico non riesce a costruire un recinto che contenga chi ne è parte e che escluda chi palesemente non è di quella parrocchia o chi da essa vuole sloggiare. Nel nome di una ipertrofica dialettica che diventa cerotto per mascherare eterne guerre fra bande, tutti i “generali” del Pd si sentono sempre autorizzati a spiegare una defezione come tradimento. Perché delle cose basta parlarne in famiglia “e tutto si aggiusta”.

Di Borghi Boccia aveva detto: “Come con tutte le senatrici e i senatori del gruppo avevo avuto un colloquio personale con lui per ragionare del suo lavoro nel Copasir e per capire quali altri impegni potessero esserci per lui”. Detta più chiara significa che nel Pd quando uno fa capire che tira aria di divorzio la sola è allettarlo. Non convincerlo, magari imbonirlo. Non lasciarlo andare nel nome di una diversità che non è sempre sfumatura per un confronto ma rottura per un addio.

E che nel novero delle cose e dei sistemi complessi l’addio sia previsto Boccia pare proprio non averlo capito. O fa finta di non capire, che è “peccato doppio”. Peccato originale di un Pd che all’identità netta ha scelto il plurale della parola pretendendo poi che esso generi sempre e solo ricchezza.

Fra illusione ed ipocrisia.

BUSCHINI & POMPEO

C’è stato un tempo in cui l’Occidente tentava di capire cosa accadesse oltre la cortina di ferro analizzando le immagini del Politbureau schierato sulla Piazza Rossa in occasione della parata per la Vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Stare più vicini o più distanti da Breznev o da Krusciov rispetto all’anno precedente significava essere saliti o scesi nella scala gerarchica. Chissà se ricordano quelle parate Antonio Pompeo e Mauro Buschini.

I due ex enfant prodige della politica ciociara non sono stati invitati alla Direzione Provinciale del Partito Democratico in cui si decidono le strategie e si imposta la rotta politica. Mauro Buschini dopo essere stato tutto nel Pd ha scelto di fare un periodo da tecnico; sta prestando la sua esperienza politica alla costruzione dell’Egaf, il nuovo ente che deve occuparsi di ambiente e rifiuti. Antonio Pompeo non ha centrato l’elezione a Consigliere regionale e non è più presidente della Provincia. Né sindaco di Ferentino.

È la politica come l’ha disegnata la loro generazione: non deve più essere un mestiere, dopo un po’ si passa la mano e si torna al proprio lavoro. Ma è innegabile che l’esperienza di un ex segretario provinciale, già consigliere regionale, presidente di commissione, assessore, presidente del Consiglio regionale e di un ex presidente di Provincia ed ex presidente dell’Unione delle Province del Lazio, non si trovino sulle bancarelle del mercato settimanale.

Non ci sono, giusto che sia così. Ma forse la politica è diventata così proprio perché da un certo punto in poi ha iniziato a fare a meno dell’esperienza. Dall’era delle rottamazioni in poi. Ha preso spazio un nuovismo che non sempre è sinonimo di miglioramento. Ma è la politica che quella generazione ha voluto. O non ha saputo impedire. Lasciando che a governare le scelte fosse la pancia della gente. I politici buoni, una volta, non si facevano governare dalla pancia. Ma le governavano.

Nobili decaduti.