Top e Flop, i protagonisti di venerdì 3 marzo 2023

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 3 marzo 2023

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 3 marzo 2023.

TOP

FRANCESCO RUGGIERO

Francesco Ruggiero

Il segno sul nuovo anno accademico lo ha scolpito lui. In maniera indelebile. Come solo certe parole possono essere, a differenza di altre leggere ed inutili che spariscono nell’aria nello stesso istante in cui vengono pronunciate.

Le ha impresse con martello e scalpello il ceccanese Francesco Ruggiero, 25 anni compiuti ad inizio mese, mentre ha proinunciato il suo discorso all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Cassino.

Poco conta la citazione dotta per quanto precisa ed opportuna come le parole di David Sassoli: «L’Unione Europea non è un incidente della Storia, siamo figli e nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia». Preambolo, strumento necessario per ricordare all’uditorio che a Cassino si vola alto restando nella sostanza delle cse.

Ma Francesco Ruggiero poi ha preso martello e scalpello. Ed ha impresso le sue parole nel corpo dei docenti, in quello dei suoi colleghi studenti, delle loro famiglie a casa. Scalpellata dopo scalpellata, rimuovendo un pezzo di ipocrisia.

Abbiamo creato una società fondata su un modello di perfezione utopistica. In cui l’unico fattore fondamentale è performare. Ci chiedono di raggiungere obiettivi magistrali nel minor tempo possibile, pena l’esclusione. Perché l’ambito lavorativo impone restrizioni sempre più significative e dobbiamo assicurarci una nicchia nel “mondo dei grandi”.

Non è raro che questa continua corsa generi la competizione tra studenti e studentesse, il senso di inadeguatezza, l’idea di essere un fallimento. Così l’università rischia di trasformarsi in una fabbrica di esami e di schemi rigidi, mentre il rapporto con i nostri colleghi tende a costituire una fonte di disagio e non di raffronto positivo.

Laureato in Economia e Management dell’Innovazione, già insegnante di scuola superiore, è membro del Consiglio degli Studenti dell’Unicas. Politicamente è allievo di PrimaVera Studentesca la palestra politica universitaria che sta sfornando molti dei nuovi quadri per i Partiti sul territorio. A Ceccano è stato tra i primi dei non eletti alle scorse elezioni comunali ed è presidente di un movimento giovanile di Centrosinistra: Progresso Fabraterno.

Una volta un ex assessore alla Cultura definì quei ragazzi come dei radical chic di sinistra con il portafoglio ben gonfio in tasca. Lui ha risposto così: «Sono orgogliosamente figlio di un bidello che si alza tutte le mattine per andare a lavorare, torna a casa, si sveste e va a fare l’orto per risparmiare qualcosa. Ho iniziato a lavorare a 16 anni facendo il bagnino, volantinaggio ed il cameriere. Oggi, con due lauree, faccio il lavoro della mia vita. A differenza di qualcuno, io non campo di politica per poter vivere e poter mangiare. Io lavoro e continuo a studiare».

Sarebbero di certo piaciute anche a Sassoli. 

Progresso Ciociaro

MATTEO RENZI

Matteo Renzi (Foto: Carlo Lannutti / Imagoeconomica)

Il bivio di Matteo Renzi era di quelli epocali, anche se lui ha la straordinaria capacità di far apparire le grandi ferite come ginocchia sbucciate a cui serve solo una spennellata di tintura di iodio. Renzi si trova da tempo nella scomodissima posizione di essere playmaker come singola figura politica e spallone come leader di un Partito che proprio non ce la fa, ad abbrancare numeri di decoro minimo nell’appeal sugli italiani.

Era stato quello il motivo per cui l’ex premier fiorentino aveva cercato con forza l’alleanza con l’altro grande uomo totem di un centro spiccio di idee ma deserto di ideologie e soprattutto scarso di numeri fin quando Silvio Berlusconi camperà e farà sapere al mondo che campa: Carlo Calenda. La coppia aveva funzionato malaccio alle politiche e malissimo alle Regionali laziali e lombarde e i nodi erano venuti al pettine. Con i due leader che da quella “amiconi” erano passati alla fase “frecciate” ed erano in procinto di farsi gli occhi neri.

Ma Renzi è un maestro di tempismo ed in quattro giorni ha bruciato le tappe senza dare l’impressione che le stesse bruciando, come i coupè giapponesi che ti arrivano a 230 e da dentro sembra filino a 80 in corsia di emergenza. Come? Calenda per sopravvivere ha bisogno del Partito unico e non più della sintesi strategica ma monca del Terzo Polo. Renzi ne ha bisogno come lui, ma ha una base più “quadrata” a cui rendere conto, per lo più ex Dem con un forte senso della partecipazione e l’uzzo snob di non prendersi in casa un altro rampollo di quello stesso generone romano che poi ai Dem piace piace tantissimo.

E il leader di Iv ha giocato di velocità senza giocare di fretta: di fronte alle accuse di Calenda di essere disposto a denti stretti a fare il Partito unico ha risposto spiegando prima che la fretta è cattiva consigliera ed ha chetato i suoi. Poi l’ha buttata nel merito, che per lui è calzino comodissimo: “Il partito unico lo facciamo? Sì, ma la questione è il quando e soprattutto il come. La tempistica è l’ultimo dei problemi, il problema è come lo facciamo questo partito. Ma sicuramente lo facciamo“.

Poi ha affondato sul pedale ed ha riunito i suoi per discutere della proposta di costituire un partito unico con Azione. Si è preso il “bravo” per non aver ceduto subito e il disco verde ad accelerare una volta stabilito chi “comanda”. E salvando capra e cavoli si è intestato la benevolenza di chi ha voluto un parto e lo scetticismo di chi sulle genesi ci ragiona. Ora gli resta solo di macumbare verso Arcore ma lì sarà molto più dura.

Pochi applausi, ma buoni.

FLOP

GIUSEPPE CONTE

Giuseppe Conte

Durante la pandemia ha riempito l’Italia degli ormai celebri Dpcm. Appariva in tv a reti unificate, preferibilmente la sera e spesso in ritardo: con un effetto moltiplicatore dell’anzia che serviva a rendere più drammatico il momento. Ed annunciava una nuova ondata di Decreti sui quali veniva deciso di tutto. In appena 54 giorni vennero prodotte oltre mille pagine di leggi, con un metodo sul quale ebbe ad esprimere le sue scientifiche perplessità un costituzionalista di peso come il professor Gino Scaccia. (Leggi qui)

Ora l’uomo dei Dpcm, l’allora premier Giuseppe Conte è accusato di omicidio colposo: per non avere firmato l’unica carta che avrebbe avuto senso firmare: quella per contenere da subito la pandemia. Insieme ad altri 14 indagati è accusato di avere cagionato per colpa la morte di 57 persone, contagiate dal Covid e poi decedute a Bergamo tra il 26 febbraio e il 5 maggio del 2020. Ma la vera contestazione, sulla quale c’è tutto il peso politico della firma che sarebbe mancata è l‘epidemia colposa, per aver contribuito alla diffusione del virus in Val Seriana ad almeno 4.148 contagiati, non istituendo altre zone rosse.

È quella la vera polpa. Il ministro Roberto Speranza premeva per istituire le zone rosse, subito. E firmò. Giuseppe Conte non lo fece. Si arrese solo dopo all’evidenza della situazione.

Onestà intellettuale vuole che si accenda un faro per illuminare alle sue spalle. Con la luce della memoria e non dell’inquisizione. Per tirare fuori dall’ombra tutti quelli che in qualche maniera spinsero la mano di Giuseppe Conte a non impugnare la penna. Ce n’erano tanti. Leader politici che erano e sono ancora oggi capi di Partito: secondo i quali era tutta un’esagerazione e cavalcarono pure la paura della gente per i vaccini. Alimentarono così i dubbi, moltiplicarono complottisti e No vax, giustificarono corbellerie di ogni tipo. Inducendo Conte a rallentare.

Furono leader Italiani e stranieri. Nessuno dimentichi gli inglesi secondo i quali non avevamo voglia di lavorare, i francesi che sorridevano, gli Olandesi e gli Svedesi che ci guardavano con disprezzo. Ognuno di loro ha avuto la sua Bergamo.

Giuseppe Conte andrebbe condannato. Non per i reati ipotizzati e per nessun reato: ognuno fece ciò che poteva usando quanto sapeva, praticamente sapevamo nulla. Ma andrebbe condannato perché di fronte a quel nulla non fece prevalere la prudenza, facendosi rallentare dalla paura di ciò che avrebbero detto gli avversari. E con lui, in quello stesso Tribunale, andrebbero condannati quelli che erano pronto a saltargli alla gola se avesse firmato.

La paura della firma.

NICOLA FRATOIANNI

Nicola Fratoianni

Non è quasi mai uscito da quel “mood dietrologico” a cui tanto paga pegno la sinistra-sinistra negli ultimi anni. Un certo modo di concepire ed enunciare le faccende umane non è infatti più “à la page”. Non lo è perché è cambiata la storia, non necessariamente in meglio. E perché i rappresentanti di alcune categorie politiche non hanno saputo, o voluto, seguirne la nuova usta, concettuale e lessicale.

Attenzione però, per converso anche la faccenda delle sinistre ormai inadeguate a descrivere e risolvere i bisogni delle loro mutevoli basi è ipocrita. Lo è perché fino a prova contraria essere di sinistra, dire cose di sinistra e fare cose di sinistra non solo non è mai stato peccato, ma non sarà mai completamente un anacronismo. A meno di non voler considerare il mondo e l’Italia posti beati dove tutti sono felici ed in tutto appagati. Non è così, anzi, in Italia si continua a morire ad esempio, mentre si cerca di sbarcare il lunario di un Paese che non lo riesce ancora a rendere salario.

Insomma, dato che il mondo perfetto è un’utopia sarebbe il caso di smetterla di considerare utopico quello che dicono i politici che hanno scelto di stare dalla parte degli ultimi. Gli ultimi ci sono ancora ed hanno bisogno di bardi, perciò Fratoianni ha fatto benissimo a dire che “in questo Paese bisogna ridare al lavoro l’importanza che merita. Ancor più quando l’emergenza si chiama salari bassi, precarietà e diseguaglianze crescenti“.

Il segretario nazionale di Sinistra Italiana e parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra Nicola Fratoianni non le ha mandate a dire ed ha usato una lingua che non va seppellita perché con essa di seppellirebbero le aspirazioni di molti, troppo italiani. E ve ne fossero solo cinque in tutti il territorio nazionale a cercare quelle frasi vi sarebbe sempre bisogno che qualcuno le pronunci. Frasi come “un’emergenza che si chiama assenza di politiche industriali ancor più necessarie di fronte alle sfide della transizione ecologica. Un Paese che vuole mettere al centro il futuro non può che misurarsi con il mondo del lavoro e con le sue organizzazioni sindacali, a partire da una delle più autorevoli come la Fiom”.

Per Fratoianni sono “tutte questioni che mancano da troppo tempo dall’agenda della politica e che questo governo non ha minimamente in mente. L’unica commissione che serve è quella sulla continua strage sui luoghi di lavoro. Una scia di dolore inaccettabile perché nel 2023 non si può continuare a morire di lavoro“. E fin quando ci sarà un solo tizio che parla dello scempio delle morti bianche sarà bene che in Italia chiunque, anche quelli con altre tessere, siano felici che quelli come Fratoianni ci siano. Ci siano e parlino.

Ora però manca l’ultimo passo. Quello che rende sostanza gli straordinari concetti di Fratoianni. Manca un gesto di coraggio che solo un vero leader di sinistra può compiere. Ed è quello di comprendere il mondo del Lavoro nel Secolo XXI: nel quale i padroni delle ferriere non sono la regola; che lucrare sugli importi dei salari non è più il rubinetto dal quale le imprese riempiono l’otre dei loro guadagni. Anzi, nel mondo di oggi è Confindustria a chiedere di aumentare i salari: riducendo le tasse che quei già magri stipendi assottigliano ancora; snellendo norme che rendono il mercato del lavoro fermo a schemi ormai sorpassati.

Sarebbe perfetto. Se avesse il coraggio di compiere anche quel passo.

Nicola va alla guerra.