Tutti contro Matteo. E quasi tutti con Nicola

Ora nel Pd stanno tutti contro Renzi. E quasi tutti con Zingaretti. Che punta a compattare un fronte ampio. Accuse al Segretario: ha accumulato anni di sconfitte.

Laura CESARETTI
per IL GIORNALE
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Matteo contro tutti all’Assemblea nazionale del Pd. Tutti contro Matteo il giorno dopo.

Appena investito ufficialmente come segretario, sia pure a termine, Maurizio Martina rintuzza le aspre critiche di Matteo Renzi al governo Gentiloni, reo a suo parere di non aver saputo «dettare l’ agenda» su temi cruciali per la campagna elettorale, dallo ius soli ai voucher ai vitalizi. «Critiche sbagliate e ingiuste, non le ho condivise», dice.

 

«Basta dividersi così tra noi, io voglio un Pd diverso. Va attaccata la destra pericolosa ora al governo, non chi di noi ha servito bene il Paese». Ma le parole del neo-segretario sono solo la punta di un iceberg ben più vasto di malumori e insofferenza verso l’ex leader e il piglio aggressivo (e troppo poco «autocritico», gli rinfacciano in molti) con cui sabato ha sferzato la platea dell’ Ergife, prendendosi la scena nel giorno che avrebbe dovuto segnare, nelle speranze di molti dirigenti Pd, la sua uscita di scena.

 

Un’ area vasta del Pd sembra ansiosa di liberarsi dell’ ingombrante segretario uscente. Così, alle critiche di Martina (che di Renzi era il vicesegretario) fanno eco quelle di Giuseppe Sala: «Quello di Renzi mi è sembrato un tono inutilmente polemico», dice il sindaco di Milano.

 

E Nicola Zingaretti, il candidato che dovrebbe, nelle aspettative di molti, chiudere la stagione del renzismo, non replica direttamente a Renzi ma senza nominarlo liquida come «passato» e «ricette fallimentari e superate» le analisi dell’ex premier, e ne invoca il superamento: «Occorre riaccendere speranze, passioni, partecipazione e fiducia nel futuro in una ricerca nuova. Ci attendono mesi di lotta politica contro la destra e di grande sforzo intellettuale e culturale per invertire la nostra rotta».

 

Il più sconsolatamente realista è Carlo Calenda, che definisce il Pd un Partito «in crisi puberale» dal giorno dopo le elezioni: «Siamo fermi al chi ha sbagliato. Renzi dice Gentiloni, la minoranza dice Renzi, e si congela tutto per sette mesi mentre il paese vive una stagione politica e di governo drammatica. Così non si va da nessuna parte», è la sua desolata analisi.

 

Il cannoneggiamento, dentro il Pd e sulla stampa «amica» come Repubblica, è tale che Renzi a sera reagisce via Facebook: «Non intendo rispondere a nessuna polemica, solo politica: pronto a confrontarmi con tutti, su tutto, dall’ Europa e l’ immigrazione fino ai vitalizi o ai voucher. Prima o poi sarà chiaro anche a quelli che insistono con le divisioni interne e le lotte fratricide che stanno attaccando il Matteo sbagliato».

 

Ma dietro le diatribe personali che squassano il Pd c’ è una doppia partita: quella per il controllo del Partito e quella sulla linea politica. L’ area renziana è senza candidato («Nessuno vuol fare il segretario di Matteo», dicono gli avversari), mentre Zingaretti punta a coagulare un fronte ampio che raccolga la sinistra ex Ds ma anche ex supporter di Renzi come Gentiloni e Veltroni.

E quando parla di «invertire la rotta» pensa ad una linea di riconversione a sinistra e di apertura di dialogo con i Cinque Stelle. Sconfessando non solo la lettura dell’ ex premier, che definisce i grillini una «corrente della destra leghista», e i suoi richiami a Macron (e Blair), ma anche riforme cruciali del governo Renzi, come il Jobs Act, considerate troppo liberali: un’ ampia fetta del Pd già teorizza la necessità di aprire, quando arriverà in Parlamento, al cosiddetto «decreto Dignità» di Luigi Di Maio.

 

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