Valentina, amata dalla gente e dimenticata dal suo mondo

Il destino ci ha privato della voce e della sensibilità di Valentina Prato. Che a questa professione aveva dato il meglio di se stessa e che aveva dimostrato di essere in gamba sulla fetta più scomoda della torta. Poi venne il tempo dei trapassi editoriali e del telefono che non squillava più. Si era disegnata una nuova vita. Dalla quale un ictus l'ha strappa via a cinquant'anni

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Macchiato con latte freddo”. Non c’è stata una sola volta in cui, una volta arrivata nella redazione cassinate de La Provincia, Valentina Prato abbia dimenticato questo rito. Questo e quell’altro, il rito del suo Mac G8 acceso e titillato con una naturalezza che a me ha sempre fatto impressione. Lei da ragazza aveva studiato dattilografia e nella digitazione su tastiera aveva quella naturalezza che ai mestieranti con la vanga nei polpastrelli metteva sempre un po’ soggezione.

Quando nel 2000 alla redazione di Cassino de La Provincia ci arrivai io lei aveva la cronaca. Roba seria, mica fuffa da scafati social come oggi. Roba da pancia pelosissima per cui bisognava appostarsi come sciacalli sul luogo di tragedie su strada che sparavano in aria i coriandoli neri del dolore. Ed avere l’impressione di esserlo davvero, degli sciacalli, per poi rimediare la fotina di un morto. Lo si faceva con la funzione “macro” della macchinetta digitale e su documenti spesso unti del sangue di chi non c’era più.

La cronaca e gli anni in cui farla era duro

Alberto ceccon e Valentina Prato

Lo si faceva dopo essere arrivati a razzo con l’auto personale in quei posti dove puoi solo sposare la verità, mai cornificarla con la verisimiglianza. Perché la cronaca è così: non lascia adito a letterature, non è lo specchio con cui mostri chi sei, ma il riflesso di quando mostri com’è il mondo, e il mondo il più delle volte è un letamaio. Non c’è alcun compiacimento da veterani nel rimembrarlo, solo la consapevolezza che per fare quel mestiere dovevi essere rapido e freddo.

E Valentina non era veloce affatto, men che mai fredda, era l’opposto: era pigra e sensibile, quindi stava agli antipodi di quel che doveva fare. Eppure lo faceva benissimo, il che inquadra molto bene la faccenda e dice molto di quanto lei fosse in gamba sulla fetta più scomoda della torta.

Gli anni di radio avevano addomesticato la voce di Valentina, già bella e calda di suo, ad una cantilena con cui il consueto primo giro di nera del mattino diventava perfino piacevole, anche se era preludio potenziale di una giornata di “mazzo”.

Era chiacchierona, Valentina, chiacchierona a golosissima di dolci. Ed i racconti con cui si stemperava il tempo tiranno in redazione finivano sempre per toccare due cose che amava: i suoi gatti e la sua Luino. Varesotta di origini ed innamorata dei suoi mici, contrappuntava la fine di ogni telefonata a caccia di notizie con un “miao” celebrativo.

Picchi mediane e tonfi

Valentina Prato

All’inizio a me dava sui nervi: non capivo o non avevo voglia di capire perché si debba essere così propensi a parlare di sé in un posto che traboccava per mission delle vite degli altri. Questa faccenda fu alla base di una equalizzazione tra noi che ha sempre proceduto a scatti, per picchi, mediane stanche e tonfi.

Io ero diffidente e lei era com’era, cioè talmente “papale” da non lasciare mai adito ad equivoci. Un giorno me le cantò per la più cretina delle faccende. Io ero chino sulla tastiera a massacrare i tasti come un forsennato. Avevo uno scoop di giudiziaria e all’epoca mandare dall’analista bravo i colleghi-amici-rivali di Ciociaria Oggi era quello che dava senso alle nostre giornate.

Come da prassi fumavo come un forsennato e lei odiava il fumo, lo odiava a ragion veduta. Ma spiegare ad un fumatore il valore cartesiano di una ragione è come convertire al Nesquik un eroinomane. Finì male, ad urla e rimbrotti, con lei che mi invitò a correggere meglio la mia bozza dato che la sera le ripassava lei. La presi come una ripicca e siccome ero idiota non lo feci. Il giorno dopo la mia firma campeggiava orgogliosa sotto un sei colonne velenoso come un mamba ma pieno di errori, quindi meritevole solo di finire nel cesso.

Potevo fare due cose: dare la colpa a lei o provare a capire che la sinergia sta alla base di ogni lavoro ben fatto. Nei dieci anni a seguire provai ad ascoltare Valentina invece di sentirla. E scoprii cose: scoprii che dietro quel suo continuo canticchiare “Comprami” di Viola Valentino c’era una solitudine sconfinata. Scoprii che a furia di fare le pulci alla collega non avevo mai visto l’amica e che anche alla collega c’erano ben poche pulci da fare.

Il rigore e le storie della gente comune

Valentina Prato ai tempi della radio mentre intervista Riccardo Fogli

Valentina era rigorosa, asciutta di stile, non poggiava mano sui tasti se non aveva almeno due fonti ed aveva la “lucina”. Quale? Quella per cui ogni giornalista bravo sa esserlo a prescindere da quello che fa, senza accovacciarsi sul montacarichi buffone della cosiddetta “cronaca alta”. Non le serviva il grande processo, non la camorra che spesso cerchiamo tutti come trend topic speranzoso sotto cui digitare la nostra firma. Non ci voleva il claim mediatico per scatenarla e con lei non partiva mai la rincorsa alle “fly” dei media nazionali quando Cassino le attirava per fatti eclatanti. Il suo era il mestiere che portava all’attenzione dei lettori le storie della gente, mai gli orpelli di chi nella gente vede amebe da studiare.

Era forte e debole, Valentina: debole e schietta al punto tale da non aver mai saputo far tesoro delle sue immense skill. Non era ipocrita e non sapeva tenere la testa a galla quando montavano le maree di roba calda e marrò.

Arrivarono gli anni dei grandi trapassi editoriali e nessuno si ricordò di lei. Nessuno, tranne lodevoli eccezioni, mise una spunta sotto il suo nome e sotto quello che aveva rappresentato per il giornalismo del Cassinate e della Provincia. Poi è arrivata la sua morte e con essa un dolore ecumenico e genuino per la più parte.

Quel cellulare che non squillava più

Valentina Prato con Biagio Izzo

Valentina si era fatta nuovi amici, aveva dato il meglio di sé in nuovi e decorosissimi ambiti, ma il suo cellulare non squillava più. Il trillo speranzoso che ci fosse qualcuno capace di offrire un’opportunità, un nuovo inizio, non è arrivato mai. Non è colpa di nessuno, in particolare. Il giornalismo è quello che è: un immenso iceberg di vite incompiute che mostra affiorante solo la punta piccola e scintillante di esistenze tronfie, ma che non fanno e non faranno mai sistema.

La gente vede la punta e pensa che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare. E forse ha ragione, perché fare il giornalista è molto più che lavorare. E Valentina lo sapeva benissimo, tanto bene da averlo insegnato anche a chi, come me, era sordo. E che oggi se ne fotte degli insegnamenti perché rimpiange un’amica.