Penultima udienza per l'avvelenamento della Valle del Sacco. Hanno parlato gli avvocati. Sostenendo che gli imputati vanno assolti. Ecco perché. Fissata l'ultima udienza. La sentenza a febbraio.
Il giorno del verdetto è fissato. La sentenza sull’avvelenamento della Valle del Sacco verrà pronunciata a febbraio 2020. Lo ha stabilito oggi il giudice Luigi Tirone, il magistrato che nel tribunale di Velletri sta giudicando cosa avvenne in quella vallata tra le province di Roma e Frosinone. Chi sapeva che il latte ormai era contaminato, chi non impedì che finisse sulle tavole dei cittadini del Lazio. Chi è responsabile dello sversamento nel fiume Sacco del Beta-hch, derivato dall’insetticida Lindano usato per anni in quella zona. (leggi qui Hanno avvelenato la Valle del Sacco: condannateli a 2 anni).
La data del giudizio
Il processo è arrivato alle ultime battute: sono passati quindici anni. Ora ci sono delle date precise. La sentenza di primo grado verrà pronunciata dopo l’ultima udienza: è stata fissata oggi al 29 gennaio 2020. Lo ha stabilito oggi il giudice Luigi Tirone: in quella data ci saranno le conclusioni delle arringhe difensive, iniziate oggi in aula. Ci sarà il tempo per le repliche della pubblica accusa. La lettura del dispositivo è prevista entro febbraio 2020.
Due gli anni di condanna chiesti lo scorso 14 ottobre dal pubblico ministero, Luigi Paoletti. Per lui si è configurato il reato di disastro innominato. Ha chiesto di dichiarare colpevoli i quattro imputati: l’allora direttore dello stabilimento della Centrale del Latte di Roma, Giuseppe Zulli; l”allora direttore dello stabilimento Caffaro srl di Colleferro Carlo Gentile che fu in carica dal primo marzo 2001 al 31 maggio 2005; il legale rappresentante ed il responsabile tecnico del Consorzio Csc di Colleferro e cioè Giovanni Paravani e Renzo Crosariol.
Richiesta di condanna a cui oggi hanno risposto le difese, che hanno discusso e consegnato al giudice le proprie conclusioni nel corso di una lunga udienza. È iniziata stamattina attorno alle ore 10 ed è terminata alle 18.20.
Superficialità e omissioni
Ad aprire i lavori in aula è stato l’avvocato Massimo Guadagno, legale di parte civile. Ha riproposto il contesto in cui è maturata la contaminazione della Valle del sacco. Ha parlato di “superficialità e omissioni” nella condotta degli imputati a partire dall’assunto che “gli abitanti della Valle del Sacco hanno l’esaclorocicloesano nel sangue e patologie“, mortali e non, “riconducibili a questa sostanza“, che, oltre ad essere insolubile, puo’ dare origine a fenomeni di bioaccumulo.
“I siti industriali presi in esame da Arpa Lazio – ha sostenuto Guadagno – non sono Arpa 1 e Arpa 2, ma Benzoino e Chetoni-Fenilglicina“, aree su cui “già nel 2001 la Caffaro aveva commissionato sondaggi e analisi allo studio geotecnico italiano, rilevando valori di esaclorocicloesano superiori a quelli consentiti per i terreni commerciali e avviando“, di conseguenza, “il piano di caratterizzazione del sito“.
Ma la documentazione, “seppur spedita tramite raccomandata al Comune di Colleferro, non è stata ricevuta“.
Il fatto non sussiste
“Il fatto non sussiste“, è stata la conclusione di Giulio Venturi, legale di Giuseppe Zulli. Il suo cliente è accusato di non aver comunicato ai competenti organi sanitari i risultati positivi per il beta-HCH sulle analisi del latte del dicembre 2003 e giugno 2004. E di essersi limitato a sospendere i conferimenti provenienti da un’azienda locale: in pratica ha smesso di prendere il latte dalla stalla in cui era emersa la contaminazione ma non ha dato l’allarme e non ha fatto scattare i controlli in tutta la Valle.
Il suo avvocato invece dice che il fatto “non sussiste” perchè, rispetto alla “colpa per omissione nei reati impropri, mancano la condotta, il nesso causale, l’inevitabilità e la prevedibilità dell’evento, e manca anche l’evento“.
Che significa? Il codice fissa una serie di elementi per poter sostenere che sia stato commesso il reato. L’avvocato li ha ricordati al Tribunale ed ha fatto notare che – a suo giudizio – mancano proprio i fattori che caratterizzano il reato.
Il latte contaminato
Per Venturi e’ “paradossale” che nel procedimento sia citata la Centrale del Latte di Roma, che “non aveva il ruolo di garante primario, attribuito dalla norma al produttore e alla Asl, ma solo di garante sussidiario“. E non siano citati, invece: la Cooperativa Produttori Latte Casilina che, “in seguito alla sospensione del giro 37 (in cui era stato individuato il latte contaminato) da parte della Centrale ha continuato a conferire ai caseifici“. E la Asl di Colleferro, “che nonostante la sua posizione di garanzia, comunica la possibile contaminazione ambientale solo l’1 aprile del 2005“, configurando “un periodo di inerzia pari a quello che l’accusa concretizza nella condotta omissiva della Centrale“.
Che significa? Che se sul banco degli imputati c’è la Centrale del Latte allora all’appello mancano altri che avevano – stando alla ricostruzione dell’avvocato – responsabilità ben maggiori. Se proprio loro non sono stati citati in giudizio allora meno ancora è responsabile la sua cliente.
Ma “sul latte commercializzato, risultato conforme, non c’era nessun rischio potenziale” per i consumatori, ha continuato il legale. E l’azienda, “che ha applicato bene il manuale di autocontrollo, ha condotto le analisi sui pesticidi ogni sei mesi, sebbene non ci sia in questo senso un obbligo previsto dalla norma e sebbene siano i produttori a dover garantire la salubrità del prodotto“.
I tempi
Insomma, “il fatto non sussiste perché il reato e’ stato consumato in epoca precedente all’entrata in scena del Csc Colleferro (1991)”, è stata poi la conclusione di Roberto Borasio, legale di Crosariol.
L’avvocato fa risalire la fine della condotta che ha portato al disastro ad un’epoca “non successiva al 1990” e, data “la prescrizione di dieci anni calcolata con le norme all’epoca vigenti“.
Tradotto dal linguaggio forense: i fatti sono avvenuti certamente (dice l’avvocato) prima del 1990 e dopo quella data le cose sono cambiate; è passato troppo tempo ed ormai i fatti sono prescritti, non c’è più il tempo per giudicarli.
Chi lo dice? Richiama in aula la giurisprudenza di Cassazione, in particolare la sentenza Eternit, sostenendo che “il reato sarebbe stato prescritto ancor prima che il procedimento fosse avviato. Gli atti del processo degli Anni 90 su Arpa 1 e Arpa 2– continua il legale- ci indicano l’esistenza di residui del lindano trattati senza il minimo riguardo“.
Quindi l’inquinamento risalirebbe a quando “la sostanza era sintetizzata e prodotta o subito dopo“. Insomma “non può esserci un reato a consumazione protratta del tipo proposto dal pm al Tribunale“.
Apporto modesto
Tesi sostenuta anche dalla difesa di Giovanni Paravani, rappresentato dall’avvocato Vittorio Gromis di Trana. Che ha sottolineato “l’apporto modesto delle acque meteoriche” al disastro- Ed il loro “effetto irrilevante sulle zone ripariali e sui terreni agricoli“. Soprattutto “l’origine storica dell’inquinamento, di cui il Consorzio non è responsabile. Chiedo l’assoluzione perche’ il fatto non sussiste“, ha concluso Gromis. L’avvocato ha proposto in subordine la concessione delle “attenuanti generiche” e il rigetto del risarcimento delle parti civili “per mancanza della prova del danno e della sua quantificazione“.
Il 29 gennaio 2020 discuteranno le conclusioni i legali della difesa Mario Gebbia e Marco Fagiolo. Poi ci sara’ la replica del pm. L’udienza è fissata per le 11.30.