Il viaggio del vescovo a Torino per salvare Fiat e lo scenario che si ripete

Il monito del vescovo Antonazzo durante il Te Deum non è arrivato a caso. C'è stato un precedente che risale a circa venti anni fa. Anche all'epoca il futuro dello stabilimento di Cassino era in pericolo

Non è stata la prima volta. Quella precedente fu una ventina di anni fa. Anche in quelle ore di passaggio, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio, fu la Chiesa a scuotere la politica. A metterla di fronte alla realtà di uno gruppo Fiat che rischiava di chiudere il suo impianto a Cassino.

Nel Te Deum di San Silvestro, il vescovo Gerardo Antonazzo ha guardato dritto al sindaco Carlo Maria D’Alessandro dicendo «Le realtà locali amministrative, le quali hanno pochissimi mezzi per poter intervenire sui grandi problemi di ordine economico e sociale, alzino la voce ai piani alti per dire che i problemi della gente sono problemi seri e drammatici».

Al termine della celebrazione ha sottolineato: «La mia preoccupazione è per lo stabilimento Fca di Piedimonte. È il più grosso indotto che può assicurare un minimo di dignità a questo territorio in affanno. Le amministrazioni locali cosa possono fare in questo momento di difficoltà? Descrivere il problema ai piani alti». (leggi qui Gli otto rintocchi del vescovo Antonazzo)

Il precedente

Non è un riferimento a caso. C’è stato un precedente. Che vide protagonista l’allora vescovo e abate di Montecassino Bernardo D’Onorio. Erano le ore drammatiche in cui tutto stava crollando: il Gruppo era al centro della più grande trasformazione dell’Automotive dagli anni Cinquanta. Una rivoluzione fatta di aggregazioni e acquisizioni, su scala mondiale. Non c’era più spazio per i gruppi troppo piccoli. Fiat era in mezzo al guado: fondersi o essere assorbita.

Il tutto, nel pieno di una crisi industriale globale. Che metteva a rischio gli stabilimenti. L’impianto di Cassino era tra questi. Le notizie si facevano sempre più drammatiche con il trascorrere delle ore. Chi era nella posizione giusta per sapere, informò Cassino che il tempo era quasi scaduto.

«Andammo con l’auto fino a Torino, fu una faticaccia» ricorda monsignor Bernardo D’Onorio, oggi arcivescovo emerito di Gaeta. «Dovemmo andare con l’auto perché non c’era più tempo, fu una decisione immediata e non c’erano già più aerei fino all’indomani». E l’indomani sarebbe stato troppo tardi.

Il colloquio con Agnelli 

A spalancare le porte all’abate fu l’avvocato Franzo Grande Stevens «grande e nobile allievo del nostro collegio di Montecassino». Era il potentissimo avvocato dell’Avvocato Agnelli, il fidatissimo consulente che insieme a Gianluigi Gabetti aveva definito il complesso intreccio di partecipazioni in grado di blindare la Famiglia, assicurandole la quota di controllo della Fiat.

«Arrivammo ormai a notte fonda. Ci ricevette l’avvocato Grande Stevens ed al termine del colloquio ci introdusse in una stanza. Attendemmo. Si spalancò una porta e in fondo apparve Gianni Agnelli. L’Avvocato mi illustrò una situazione critica nella quale si trovava la Fiat in genere e Cassino in modo particolare». Un colloquio franco e leale. L’Avvocato non era tipo da sotterfugi o mezze verità.

«La prima grande garanzia e consolazione che mi diede fu quando mi disse che anche se si fossero dovuti chiudere tutti gli stabilimenti Fiat italiani, Cassino sarebbe stato l’ultimo a farlo. Per via della sua tecnologia. Feci un grande respiro».

Il ruolo dello stabilimento

Ma il colloquio andò avanti. l’arcivescovo ricorda «la magnanimità di Gianni Agnelli, che appariva come un personaggio burbero ma in realtà era uomo di grande sensibilità. E che sapeva ascoltare. Sentì tutte le mie osservazioni su questa realtà di Cassino, già annientata dalla guerra, che adesso aveva visto questo piccolo respiro dalla Fiat e dall’indotto».

L’arcivescovo ricorda che quelle considerazioni toccarono l’Avvocato. Gli ricordarono il ruolo che il destino aveva assegnato a lui ed alla sua famiglia. Era consapevole che dalle loro scelte dipendeva il destino di migliaia e migliaia di famiglie. E dell’economia di un intero Paese. «In un certo qual modo si commosse e assicurò che non avrebbe fatto i licenziamenti, ma si sarebbe impegnato per riassorbire tutti gli operai. Spiegò che avrebbe cercato anche di non ricorrere alla cassa integrazione ma agevolato il pensionamento di chi era a ridosso dell’età per ritirarsi dal lavoro».

Conclude monsignor D’Onorio «Potei ritorna a Cassino con questa grande speranza».

Lo scenario di oggi

A distanza di vent’anni, Fiat ha dato vita al colosso mondiale Fca. Ma l’epoca delle aggregazioni è tutt’altro che finita: gli analisti prevedono che alla fine i player mondiali dell’automotive saranno quattro o cinque al massimo.

Due fattori hanno spinto ora monsignor Gerardo Antonazzo ad esprimere la sua pubblica preoccupazione. Ed a fare l’esortazione a sollevare il problema più in alto.

Il primo fattore è la dottrina del presidente Usa Donald Trump: privilegia il ritorno della manifattura sul territorio degli Stati Uniti. Ha fatto un chiaro riferimento in questo senso anche ai tre grandi car maker Usa. La prima conseguenza, nel 2018 è stato l’avvio della resurrezione per lo stabilimento Mack Avenue Engine II: abbandonato da sei anni, era il sito nel quale Chrysler realizzava i motori nell’area industriale di Detroit. In quell’area vasta 45 ettari ora verrà prodotto il nuovo Jeep Grand Cherokee che arriverà sui mercati nella primavera del 2021, generando 400 posti di lavoro. La rinascita di Mack Avenue Engine II è la prima riapertura di uno stabilimento dell’automotive a Detroit in 27 anni.

Il secondo fattore. Il governo italiano ha varato una serie di incentivi e tasse sulle auto, senza tenere conto dei piani industriali Fca. Pensati per promuovere una mobilità meno inquinante, arrivano con un anno di anticipo sui piani Fiat Chrysler per l’Italia. Il Gruppo ha annunciato per il 2019 la transizione globale ai modelli ibridi o plug in, in parallelo con lo sviluppo della rete di distribuzione nazionale delle colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici. Quegli incentivi e quelle tasse, in questo momento, colpiranno buona parte dei modelli Fca; si stima che il 90% dei motori a benzina che muovono i modelli realizzati a Cassino Plant ricadano nella tassa. (leggi qui Fca, le 15 di Cassino che finiranno nell’Ecotassa)

La decisione del Governo di non interfacciarsi con produttori e sindacati, nella linea della ‘disintermediazione‘, nei fatti ha portato al congelamento dei 5 miliardi di investimenti in Italia che erano stati appena annunciati. (leggi qui Fca rimette in discussione gli investimenti in Italia: colpa dell’ecotassa)

Soprattutto sgancia Fca dalla cortesia istituzionale che imporrebbe di relazionarsi con il governo, nel momento in cui si adottano decisioni strategiche per il Paese. E qualsiasi decisione, dalla cassa integrazione al ritiro degli investimenti, ora potrà essere comunicata a Palazzo Chigi con le stesse modalità che il Governo ha usato con Fca.

Ecco perché il vescovo è molto preoccupato.