Vostro Onore, oggi mi avvalgo di rispondere con ironia (di G.M. Sacco)

Una partita di beach volley, lasciata la toga e gli impegni d'aula, può ricordare quanto l'ironia sia il sale della nostra esistenza. Per salvarci dal rischio di apparire inutilmente apparecchiati e adornati di pretese, pregiudizi, credenze sociali...

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

È trascorsa poco più di una settimana da un torneo di beachvolley consumatosi su un campo sportivo estivo, che sembrava di essere tornati adolescenti in quei complessivi alberghieri di Rimini o Riccione, con le ginocchia sbucciate, la spensieratezza fra i capelli, e quell’incredibile leggerezza di chi ha ambizioni ancora troppo lontane perché pesino sul serio sulle proprie spalle.

 

Spogliarsi degli abiti di scena, ho letto in qualche intervista di un attore importante, è la prova più ardua: sovente, infatti, il palcoscenico e la vita finiscono col confondersi e così in scena si vive per davvero e per strada si intarsia la finzione.

 

E infatti, forse su quel campo, io e i miei colleghi, riposta la toga e indossati i primi pantaloncini trovati nell’armadio, al reparto delle “cose sportive “, abbiamo finto per davvero una disinvoltura atletica che non ci apparteneva, faticando a riconoscere quel collega tutto d’un pezzo, quello con le cravatte in serie di ogni colore per ogni vestito, o quella collega che non c’è un giorno che non abbia i capelli freschi da coiffeur, atterrare dopo un volo , non proprio pindarico, su quella soffice sabbia dorata che ti pungeva e si insinuava fino all’ultimo lembo di pelle di braccia e gambe.

 

In quelle acrobazie rocambolesche, che scioglievano in un una maschera di sudore i volti più seri, e facevano rimbalzare le più grasse risate da uno spettatore all’altro, fino quasi ad intenerire gli avversari e strappare fin troppe eccezioni alle regole dalle bocche degli arbitri, ho visto veicolare molte di quelle cose che ogni giorno ci affanniamo ad affermare con il pugno chiuso, l’aria severa, prendendo noi stessi, per primi, troppo sul serio.

 

Mi è rinvenuto alla mente, d’un tratto, quanto da sempre l’ironia sia stata relegata ad una sorta di serva della verità, da lasciar fare a chi si ritiene troppo semplice per attingere ad un linguaggio ben più aulico e forbito e da utilizzare quando si vuole sminuire una conversazione, se non si da credito al proprio interlocutore e non ci si vuole sprecare a mettersi in bella mostra.

 

Ed invece, contrariamente all’imperativo categorico che sovrasta la società moderna, imperniata su regole non scritte, ma ormai consuetudinarie, fondanti il manuale dei “perfetti vincenti”, è proprio l’ironia la regina di ogni forma più acuta di osservazione di se stessi e del mondo che ci circonda.

 

Ci libera dai filtri, quelli che ci truccano sui social, per sembrare più alti, più magri, più in sintonia con le copertine patinate dell’ultimo momento, per riconsegnarci a noi stessi così come siamo: sporchi di sudore e sabbia su un campo di pallavolo, con i capelli strapazzati dalla fatica, imbranati mentre corriamo a rincorrere una palla che drammaticamente cadrà a terra e non fra le nostre braccia.

 

Se ci esercitassimo nell’ironia non staremo sempre lì a gareggiare per il podio, ma ci godremmo la partita, e scopriremmo quanto si sta bene anche in seconda fila, a godersi una lezione, mentre la si mischia ad un mojito , riflettendo su quanto la strada che conduca alla serietà delle cose e alla profondità delle stesse non possa mai prescindere da una curva di ironia.

 

Lo sanno bene i miei colleghi Marco e Antonello Martinez, che in quel prezioso opuscoletto che tengo sempre sul mio comodino ”Quando il diritto va a rovescio”, si lanciano in una dotta e divertentissima disquisizione sugli imprevedibili risvolti del Diritto, quando accade che a forza di emanare leggi su leggi, e voler pontificare su tutto e prendere sul serio ogni minimo dettaglio insignificante, si finisca per ingarbugliare talmente tanto la situazione che neppure gli addetti ai lavori sanno applicare le norme senza cadere nel ridicolo.

 

E proprio da questa raccolta di riflessioni semiserie sull’involontaria comicità della legge che si comprende come l’ironia dovrebbe entrare di diritto, come regola non scritta, nei codici di vita di tutti noi, per salvarci dal rischio di apparire inutilmente apparecchiati e adornati di pretese, pregiudizi, credenze sociali ed ipertrofie normative che non aggiungono nulla, ma sottraggono soltanto tempo e attenzione a ciò che vale davvero di essere vissuto e normato.

 

E quindi, più di qualche volta, dentro e fuori dalle aule di giustizia dovremmo avvalerci della sacrosanta facoltà di essere ironici!

 

Ps: alla prossima, quando nessuno mi toglierà la cucchiarella degli ultimi, che ero già pronta ad usare per il ragù della domenica, appena finita la dieta (cioè a brevissimo!).

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