Il coraggio chiamato Luca di rivoluzionare il Pd

Il Pd masochista, capace di far passare per sconfitte anche le vittorie, non è quello che il milione e 800mila elettori hanno chiesto a Zingaretti. La situazione in provincia di Frosinone ne è l'emblema. Il coraggio di fare la rivoluzione vera.

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Un milione e 800mila votanti il 3 marzo scorso sono andati ai gazebo del Partito Democratico. Il 70 per cento di loro lo ha fatto per dire no al modello di Pd che era stato costretto a subire durante gli ultimi anni. Acclamando Nicola Zingaretti a Segretario Nazionale, il popolo Dem ha aperto un’ultima e insperata linea di credito ad un Partito finora incapace di esprimere un’identità di sé.

La totale mancanza di personalità ha portato il Pd ad assumere di volta in volta i tratti identitari del leader che lo guidava: appassionato di America con Walter Veltroni, curiale ed istituzionale con Dario Franceschini, burocratico e d’apparato con Pier Luigi Bersani, arrogante e settario con Matteo Renzi. Realizzando così la profezia fatta dal ministro Fabio Mussi pronunciando il suo no al Pd dal PalaMandela di Firenze: “Se vi domando ‘Chi siamo e dove vogliamo andare?’ non mi potete rispondere ‘Siamo in tanti’ “.

Quel 3 marzo il voto a Nicola Zingaretti è stato duplice: il più evidente è stato che quasi tre quarti della base sta con lui; il più importante è che un milione di elettori più del previsto è uscito dall’ombra ed è andato alle Primarie. I due voti chiedono una cosa sola: un Partito Democratico che finalmente faccia il Pd. E superi una volta per tutte le contraddizioni congenite. Tutte riassunte nella lucida e impietosa analisi condotta oggi da Corrado Trento (leggi qui Chiamami col tuo nome? No, il falò delle vanità).

La nuova guerra in atto tra l’ala del ‘liberalismo sociale’ interpretata da Pensare Democratico di Francesco De Angelis e quella del ‘cristianesimo sociale’ che ha la sua sintesi in Antonio Pompeo è il frutto di quella incapacità di raggiungere una sintesi, tutta ereditata dalla Dc che si scannava e si contava; a differenza del Pci che si scannava e poi faceva la sintesi unitaria.

Posizioni talmente distanti da restituire l’immagine di un ‘doppio’ Pd, o quantomeno di un Pd in totale sdoppiamento della personalità. Sul quale Nicola Zingaretti deve intervenire al più presto se non vuole che la linea di credito aperta da quel 1,8 milioni di elettori si esaurisca in brevissimo tempo.

Perché gli effetti sono da suicidio masochista. Non c’è altro modo per classificare la straordinaria vittoria elettorale di Cassino che rischia di apparire come il risultato di una faida. E non per quello che è stata: la vittoria di un centrosinistra capace di trovare l’unità, imporsi un’identità (il candidato sindaco Enzo Salera ha rifiutato oltre mille voti strategici perché offerti da esponenti che avevano fatto parte del centrodestra appena abbattuto). È masochista un autoscannamento nel quale è il segretario Regionale a dover venire a Frosinone per ricordare che è l’unica provincia capace di impedire alla Lega di eleggere un solo sindaco.

Il Pd di oggi non è il Pd chiesto dal popolo delle Primarie che ha eletto Zingaretti ed ha candidato Salera. È un Pd diviso dall’incapacità di fare una sintesi perché gli uomini chiami a guidare il dibattito politico al suo interno fanno ancora parte del modello pre Pd, quello del ‘Siamo in tanti‘.

Quegli uomini sono preziosissimi, impagabili, insostituibili: nella loro diversità e passione rappresentano il vero patrimonio di questo Partito Democratico ancora senza identità. Altro che Rottamazione (che è quanto di più lontano possa esistere dal Dna del centrosinistra fondatore, tutto ulivismo ed inclusione). Ma appariranno bande contrapposte e non protagonisti di un dibattito, fino a quando non ci sarà chi sarà capace di tracciare una sintesi. Ed imporgliela.

Un ruolo che spetta al Segretario politico provinciale. Legittimato dal voto. L’impossibilità di trovare una sintesi anche su quello è tra gli elementi che stanno allargando sempre più la distanza tra Francesco De Angelis ed Antonio Pompeo, ripetendo i disastrosi effetti della lacerazione avvenuta nel passato tra il primo e Francesco Scalia. Il centrodestra ringrazia, il Pd però paga.

C’è l’urgenza di un congresso. Vero. Con un nome che non sia frutto di un accordo. Ma di una sintesi. Politica e non numerica. E dia anche la rappresentazione evidente del cambiamento: anche in maniera visiva, anagrafica, generazionale. Aprendo il Pd ad una generazione che altrimenti non troverà interesse nella politica perché non c’è chi sappia parlargli nella sua lingua. Una rottura analoga a quella che fu l’elezione di Mauro Buschini quando venne elevato a Segretario Provinciale quando aveva da poco iniziato ad usare il rasoio; ma usava da molto il cervello.

Un gesto di coraggio sarebbe quello di gettare nella mischia Luca Fantini, l’attuale segretario regionale del Giovani Democratici nel Lazio. Vicinissimo a Buschini ma il meno deangelisiano tra tutti, il più predisposto al dialogo con il mondo pompeiano. Capace di dire no ai leader, come fece in occasione del congresso – plebiscito che elesse Matteo Renzi: lui votò per Andrea Orlando, nonostante l’orientamento chiaramente renziano di De Angelis e Scalia. Il più zingarettiano di tutti: Orlando era il candidato appoggiato da Zingaretti nonostante fosse chiaro che a vincere sarebbe stato Renzi. Il Segretario nazionale lo ha notato e lo ha voluto in quasi tutte le tappe della lunga marcia che lo scorso inverno lo ha portato a conquistare quel 70 per cento dopo avere mobilitato un milione e 800mila persone.

Resta da vedere se intende giocare una carta simile su un tavolo come quello di Frosinone.

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