Uno spirito nuovo nel Pd (di N. Zingaretti)

Nicola Zingaretti traccia la rotta del futuro Partito Democratico. E sull'Huffington Post dice: "Non bisogna avere paura dei Cinque Stelle". ""l modo migliore per non essere subalterni ai 5 Stelle é vincere, sconfiggerli alle elezioni".

«Salvare il Pd significa cambiare alla radice questo Pd. Significa non chiudersi nella difesa dei ‘brandelli’ di voto che ci rimangono. Non mi fa paura discutere apertamente la scelta se accettare il confronto o meno con i 5 Stelle. Il modo migliore per non essere subalterni ai 5 Stelle é vincere, sconfiggerli alle elezioni. Il modo più eclatante per essere subalterni è diventare come loro; mutuare le loro forme, il loro modo di essere: come a volte sembra stia accadendo».

Nicola Zingaretti traccia la sua visione sul futuro del Pd affidandola all’Huffington Post.

«Non dobbiamo tornare indietro. Non possiamo rassegnarci al presente e contemplare il declino. Dobbiamo, di nuovo, rimetterci sul terreno di una innovazione delle idee e del progetto per il futuro» ha scritto il governatore della Regione Lazio.

 

Uno spirito nuovo nel Pd

di Nicola Zingaretti

Dopo la sconfitta del 4 marzo è davvero difficile avere un serio confronto collettivo; libero e in campo aperto. Troppo speso si rischia di andare sopra le righe, e di far ricadere tensioni di fondo su qualsiasi tema dobbiamo affrontare. In questi giorni il dibattito sul nostro rapporto con 5 Stelle ne è un esempio. Molti schemi, molte semplificazioni molta fretta a dire semplicemente dei Sì o dei No. Molta propensione a giudicare invece che riflettere.

Eppure c’è stato un arretramento drammatico del Pd e di tutte le forze della sinistra; e al contempo una affermazione oltre ogni previsione delle forze della destra e del populismo.

Il Pd che è nato per unire culture diverse, tradizioni politiche che nel corso dei decenni si sono cercate senza mai riuscire a camminare insieme, ma anche nato per mescolare ceti diversi su un programma di rinnovamento dell’Italia, si trova di fronte a una spaccatura che vede la parte più sofferente e emarginata dei cittadini votargli contro, al contrario della parte più protetta, illuminata e benestante che gli esprime un consenso: una paradossale spaccatura.

Il Pd che è nato per unire l’Italia, subisce un voto che sancisce una divisione profonda tra il nord e il sud.

Ci sarebbe tanto da indagare e tanto da capire. Purtroppo invece queste giornate sembrano far emergere un tema: sembriamo abitati da comunità che non si ascoltano. Non si giudicano più le opinioni e o le analisi in campo; si esprime un giudizio, spesso sprezzante, su chi le ha espresse. Inevitabilmente così divisi appariamo immobili e senza una bussola.

Ma questa condizione è dovuta solo alle forzature di qualche scalmanato? Di qualche dirigente troppo ligio, travolto da un ardore fanatico? Ci troviamo alle prese solo con difetti soggettivi, oppure c’è qualcosa di più profondo?

Penso di sì. C’è una generale crisi di cultura politica. Intendo, con questo, l’incapacità di una ricerca comune. Non c’è quello che in un discorso straordinario a Benevento, Moro invita a realizzare: “quale che sia la posizione nella quale ci si confronta, qualche cosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi.”

 

Non riusciamo a accettare questo nemmeno al nostro interno. Così via via è scomparso un sentire comune, inteso come un organico sistema di relazioni, un universo simbolico e valoriale di una comunità e di un corpo di militanti che possono dibattere anche con asprezza, ma appunto, arricchendosi reciprocamente.

 

Altro che intellettuale collettivo! Non si scorge né la forza dell’intellettuale, né alcun slancio collettivo.

 

È difficile così combattere gli insulti, la demagogia e la rozzezza dei nostri avversari. Siamo noi stessi al nostro interno esposti a questi pericoli: diventando tifosi che siedono ormai negli spalti vuoti, assistendo a una partita che rischia di essere giocata solo dagli altri. Il massimo del confronto che siamo riusciti a produrre oscilla tra questi due drammatici, sbagliati e limitati presupposti: la colpa è di Renzi e del renzismo; o non vi illudete il Pd senza Renzi non esiste. L’identità di una fazione diventa nettamente superiore all’identità collettiva del partito. La gente così si allontana.

 

Con questa fragilità culturale ci siamo trovati impreparati di fronte al divampare del grillismo. Le nostre critiche sono apparse spesso pretestuose e controproducenti: i congiuntivi sbagliati dei leader, la loro mancanza di diplomi o lauree, la loro provenienza da storie personali modeste.

 

In realtà noi dobbiamo mettere al centro della nostra critica e iniziativa la retorica o la falsa narrazione che i 5 Stelle ha prodotto “circa il popolo”. Cos’è il popolo indistinto? Cos’è l’indistinto “potere” da battere, tutto uguale e tutto corrotto. Si cancellano così centinaia di anni di pensiero critico di ricerca, di lotte dei lavoratori. I cittadini non sono una massa indistinta di persone unite dalle stesse condizioni e ambizioni. Questa lettura è una truffa. Tra i cittadini esistono enormi differenze e disuguaglianze. Tra i ricchi e i poveri, tra chi sfrutta e chi si approfitta dello sfruttamento. Tra rendite parassitarie e risorse positive che lavorano per l’innovazione dell’Italia.

 

Certo queste differenze non si raccolgono più attorno a classi omogenee; occorre un’indagine nuova per comprendere dove agiscono i conflitti e pesano le diseguaglianze. Ma, questo, è appunto il compito di una grande forza riformatrice e innovativa.

 

Tuttavia, ce lo dicono tutte le statistiche, le distanze tra il basso e l’alto della società sono aumentate. E, semmai, nel confronto con il movimento di Grillo sarebbe da porre come prima condizione una tassazione non vessatoria ma progressiva.

 

Infine c’è anche dell’altro: si sta verificando progressivamente una vera e propria mutazione genetica dell’identità del Partito democratico. È scomparsa quella vocazione inclusiva che, apriva un orizzonte di allargamento, di mescolamento delle persone, di apertura, di tensione verso una politica più civile e pacata, sobria e intelligente. Una vocazione che non è la volontà di comando, ma potenziale predisposizione a parlare con tutti, a convincere tutti, a non rifiutare mai le sedi del confronto e della reciproca comprensione. Se questa vocazione portava a valorizzare le differenze come un valore assoluto, oggi le differenze paiono essere il problema, danno fastidio. Poi quando dobbiamo costruire alleanze per competere nei Comuni o nelle Regioni ci accorgiamo dei problemi.

 

Noi non dobbiamo tornare indietro. Non possiamo rassegnarci al presente e contemplare il declino. Dobbiamo, di nuovo, rimetterci sul terreno di una innovazione delle idee e del progetto per il futuro.

 

Salvare il Pd, significa cambiare alla radice questo Pd. Significa non chiudersi nella difesa dei “brandelli” di voto che ci rimangono.

 

Non mi fa paura discutere apertamente la scelta se accettare il confronto o meno con i 5 Stelle. Il modo migliore per non essere subalterni ai 5 Stelle è vincere, sconfiggerli alle elezioni. Il modo più eclatante per essere subalterni è diventare come loro; mutuare le loro forme, il loro modo di essere: come a volte sembra stia accadendo.

 

Ma il problema paradossalmente non è più questo. Il problema è che cosa vogliamo essere noi sia dovessimo andare al governo o rimanere all’opposizione. Un partito che continua a essere frammentato dall’invettiva e dall’odio? Oppure di nuovo una comunità pensante. Nel primo caso la domanda è dura ma anche ovvia: cosa ci terrebbe ancora uniti?

 

Occorre allora ritrovare insieme la forza, la passione di muoversi insieme, con generosità, senza anatemi, senza diktat o retropensieri da parte di nessuno. Occorre uno spirito nuovo, questo farebbe la differenza per salvare il Pd e tornare in gioco, altrimenti la distanza tra noi e l’Italia turbata e arrabbiata aumenterebbe ancora.

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