Il mio posto (Il caffè di Monia)

Un caffè onirico. Quasi sdoppiato. Come un posto che vive in due tempi. Come una fuga inconscia. Dal luogo nel quale invece si corre a cercare riparo. Ma nel momento Inn cui i due tempi diventano uno.

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Questo mio posto vive in due tempi. Nel primo tempo ci sono giorni in cui il mondo è esonerato. Cala un coprifuoco che si rispetta unanimi. Non passano nubi, smettono gli uccelli, chiusi negozi e case. Le ore tirano espirazioni lunghissime. Si percorrono le stanze raccontandosi la storia delle povere cose, chiedendosi se esistono davvero solo perché, ogni giorno, si è gli unici ad incontrarle.

In strada, una vecchia auto fa un giro pigro dell’isolato. Una moto ronza come un moscone in agonia. Una bottiglia di plastica rotola sull’asfalto. Un cane dorme al centro della strada. Nel sole a valle, profumo di legno, di terra calda, di erba nuova. Il brusio di una tavola che si sparecchia, la frenata di un pullman che arriva e riparte lento. Pochi i racconti nell’aureola delle candele dentro la cattedrale.

Atto secondo. Tornano cose che riaccadono ogni sera: il campetto di calcio con i lampioni accesi sotto la chioma degli olmi, le altalene spinte in alto, i palloni che volano, ragazzi, merli e rondoni che fischiano, una gazza immobile sulla cima del pino lontano. Il profumo dell’erba arsa, delle arance dal giardino vicino, della carne arrostita sul balcone oltre la via.

E le luci dei paesi arroccati sulle colline, le note di un flauto dalla camera di un bambino, i panni stesi sui terrazzi, le finestre aperte delle cucine, con lampade sfiorate da figure che non si affrettano. Le strade, i portoni, i vicoli, i passanti evaporati in un senso lieto dell’approdo.

Le donne stanno sedute in pose generose, i vestiti attillati o un poco slacciati. Si soffiano lentamente coi ventagli, tenendo tra le dita la sigaretta come una bacchetta d’incenso. Se passa un uomo lo fissano serie dritto negli occhi. Ma non cercano niente; emanano e chiedono un eros come quello che c’è tra il vento e le ciliegie mature sul ramo. E così aspettano, per restare dove sono, da sole.

I ragazzini escono a giocare nei cortili; le madri stanno come lupe a controllarli sui balconi. Corrono, si urtano e si maledicono senza criterio. Il paese gli appartiene e la loro gioia è furibonda.

Al mattino inizia la vita degli uomini: camion che passano, auto che suonano, biciclette che corrono, saracinesche che si alzano, martelli che battono, donne che si raccontano da un capo all’altro della via, auto con impianti d’amplificazione buoni per il palco della festa patronale.

Le signore del paese escono a fare la spesa anche quando non serve. Ai bar, mirabile accordo tra le persone ai tavoli e le canzoni alla radio. Anche il vento cambia quando la bandiera del municipio punta ad Est. Il cartello di benvenuto è radioso. E’ tempo.

Le vie si sciolgono in un dettato veloce. Ma prima o poi i paesi finiscono, ed ecco per chilometri solo nubi e radure, greggi che si spostano, semi nel vento, alberi che crescono e muoiono in silenzio.

Questo mio posto ha il nero delle case che non ho mai voluto abitare. Ma quando arriva il temporale è sotto i loro balconi che vado a cercare riparo.