La pazza di paese (Il caffè di Monia)

Il sottile confine con la follia. Che ogni tanto qualcuno attraversa e rapidamente torna indietro. Altri invece preferiscono restare. Un viaggio tra alcuni di loro, sorseggiando un caffè di Monia

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Non c’è un perché né una cura, solo qualcosa che manca, io sono questa mancanza, il pezzo tagliato via, il più prezioso. La mia vita è un chewingum sputato a terra da qualcuno, raccolto, messo in bocca e ripreso a masticare. I miei entusiasmi sono piccoli becchi affamati a cui viene portato l’insetto. Le mie voglie archi tesi senza frecce.

Se penso bene di qualcosa mi spavento, e allora spero al ribasso. Le strade che percorro si districano per tre o quattro chilometri, come pure le persone, le montagne, i muri. Le novità riguardano il decorso delle avarie, o nuove cose che nascono, quasi sempre inutili e di pessimo gusto.

So di avere un fratello, col quale ho rapporti civili e sereni. Lui non mi cerca, di me si vergogna perchè dicono che sono pazza e la gente mi prende in giro. Non è colpa mia. A mia madre e mio padre penso più spesso perchè sono vecchi. Penso soprattutto alla loro morte. A me ne auguro una veloce e in giovane età. Ogni giorno immagino le soluzioni migliori che al momento sembrano essere l’aneurisma o l’incidente stradale. In entrambi i casi il decesso avverrebbe in maniera rapida e indolore, l’unico modo che ho per tollerare l’idea della morte.

Vivo in un silenzio pressochè continuo, interrotto dallo zampettare delle tortore sulle ringhiere, o dai suoni della vita che accade altrove, La mia dirimpettaia è un donnone identico alla madre, da cui si distingue per un goffo caschetto biondo. Se non tace urla, di solito contro un marito che, dice lei, se morisse all’improvviso non se ne accorgerebbe nessuno.

Il marito invece, di cui non ho mai sentito la voce, è un uomo piccolo che cammina piegato. Dopo le urla della moglie, ogni mattino si tira a lucido ed esce di casa, lasciando una scia di profumo economico che sa di ascelle. Va a sedersi per ore davanti al bar, a leggere il giornale o, più di frequente, ad osservare gli altri in silenzio.

Come faccio io. Mi piace osservare gli altri, cercare di individuare in ognuno qualcosa che li renda davvero diversi da me. Cosa fanno di speciale, come si vestono, come odorano. Perchè agli altri li chiamano per nome invece a me no. Perchè a me tirano i sassi e scappano e agli altri no. Eppure io vesto sempre elegante, perchè una volta ho sentito dire che se ti vedono vestita bene poi ti fanno le riverenze.

La mia gonna è sempre perfettamente stirata lungo la piega, forse a volte puzza un po’ di usato, ma nessuno lo sa perchè a me non si accosta nessuno. E poi ne cambio una a stagione. Mi piace osservare e so tante cose che però non dico a nessuno.

Non è vero, a qualcuno racconto tutto: ai miei amici immaginari. Loro vivono nell’armadio e sotto il letto. Non che non posso avere amici reali in carne ed ossa, ma i miei amici rispetto a quelli sono migliori, più completi e ricchi. Ma soprattutto sempre disponibili, fidati e disinteressati. E poi non mi tirano sassi e mi chiamano col mio nome.

A pranzo vado sempre a mangiare dai miei. Non parliamo. Mi sbrigo presto ed esco a fare cose di cui potrei fare a meno, come comprare un nuovo spazzolino da denti o l’unico tipo di pasta che manca per completare la collezione nella dispensa delle scorte. Poi mi siedo su una panchina dove mi chiedo quando moriranno mio padre e mia madre, chi prima e chi dopo, o se a poca distanza l’uno dall’altra. E soprattutto come collocarmi rispetto alla loro scomparsa.

Se chiedo alla vita “Perchè?”, lei mi risponde “Perchè sì”, una risposta, tutto sommato, soddisfacente.

La casa in cui vivo è bianca. Ha le stanze tutte sgombre. Ogni mattina perlustro le camere. Se qualcosa è fuori posto la rimetto subito in riga, se è deceduta libero il campo. Mi piace raccogliere i sassi dalle forme strane, i fiori appassiti, giornali vecchi. Tutto quello che gli altri lasciano e non vedono. Se devo fare una spremuta d’arancia prendo la tazza arancione, se di limone quella gialla.

Ogni tanto entro in chiesa. Vorrei farmi il segno della croce ma poi penso che l’acqua nell’acquasantiera è sporca. Ieri mi si sono rotte le scarpe e mia madre mi ha dato un paio di infradito con cui continuare il cammino. Solo mezzo centimetro di suola mi separa dalle pietre, dalle piume degli uccelli e dal fango. Eppure i piedi sono rimasti puliti. Più vicini alle cose, mai dentro.

Nell’ultimo mese ho frequentato spesso gli ospedali. Mi accompagna sempre mia madre e il dottore mi ha cambiato medicine. L’ultima volta che ci sono stata c’era una signora in particolare. Il figlio seduto accanto la fissava senza dire una parola, mentre la madre continuava il suo borbottio fatto di numeri, date e conversazioni con persone defunte. Oltre le sbarre del letto, il figlio era uno che osservava da un ponte qualcuno annegare in mare aperto.

Una chiocciola uscita dalla busta della lattuga è rimasta per giorni attaccata in un angolo del frigo al freddo. Pensavo fosse morta ma quando l’ho posata sul davanzale ha subito aperto due antenne che sembravano le dita di una mano.

Ogni sera prima di andare a dormire poggio il mio cappello sul tavolo e ogni giorno che Iddio manda da lì esce l’arcobaleno. Se lo vedessero gli altri direbbero che è un miracolo perchè un braccio nasce dentro al mio cappello e l’altro si perde dietro la collina dove il temporale è già finito. Ma gli altri non possono vederlo. Nemmeno i miei amici immaginari. Nessuno.

Una volta il parroco mi ha chiesto se avessi bisogno di aiuto. Mi è venuto da ridere tanto e gli ho risposto: “Mi sa tanto, mio caro prete, che ad avere bisogno d’aiuto, siete voi”.

Quella è stata l’ultima volta che ho parlato.

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