Quel che resta di Forza Italia

GIAN MARCO CHIOCCI per IL TEMPO

C’è dignità in quelle parabole politiche che terminano nella tragicità di uomini delusi e disillusi, di idee che divengono inattuali e finiscono travolte dal tempo. Meno ce n’è quando i titoli di coda scorrono su scene d’aliti di condominio, tra fogli che volano, sedie sbattute, recriminazioni e allusioni reciproche. Forse non poteva esserci esito diverso da quest’ultimo per un Partito come Forza Italia, nato per coraggio, scommessa, rischio e visione del più importante imprenditore televisivo che abbia mai avuto questo Paese, Silvio Berlusconi. E portato avanti con logiche televisive. Alla perenne ricerca di quel «guizzo» momentaneo che potesse svoltare il consenso come un modulo ben azzeccato di un programma tv fa impennare l’auditel. Alla perenne ricerca dei «volti» in grado di far sciogliere il cuore di mogli, mariti, imprenditori, giovani e pensionati.

Così, Forza Italia è stata la Hollywood che ha trasformato tante zucche in carrozze, per semplice incensamento del Capo. E miracolato tante storie personali altrimenti incolori. Sono passati vent’anni, dal 1994, quando Silvio Berlusconi chiamò nella primissima, elettrizzante, versione del Partito i migliori cervelli di Publitalia e scandagliò i territori alla ricerca di nuovi talenti. Poi, quasi più nulla.

L’enfatico, passionale abbraccio di Silvio Berlusconi con l’opinione pubblica ha creato l’illusione che potesse bastare il leader, e qualche volto di complemento, e non una vera classe dirigente costruita mattone su mattone, per dare all’Italia la svolta riformatrice e liberale tanto attesa. E così, la libertà in senso assoluto, fondamento teorico di Forza Italia, si è pian piano disciolta in uno slogan polveroso, consumato, sfilacciato da non esaltanti prove di governo nazionali e da moltissimi saggi di mala amministrazione a livello locale.

L’arroccamento attorno al Capo, figlio del suo enorme carisma e della logica del «fortino» cui asserragliarsi per proteggersi da assedi politici, giudiziari e mediatici, ha prodotto l’impossibilità di autodeterminare una visione del Paese che scaturisse dall’impegno delle persone.

Ci sono stati anni in cui aveva più peso spuntare allungando il collo dietro a Berlusconi mentre parlava alla foresta di telecamere che, magari, mettere nero su bianco un piano, per i trasporti, la sanità, il lavoro e l’economia. In cui il volto, appunto, ha soppiantato il pensiero. Situazione oggi accelerata dall’enorme, fangosa, iniezione di gossip (autoalimentato con sapienti fughe di notizie interne) per lo più basato sull’epica misteriosa del cerchio magico, che secondo la «vulgata» se chiude il cancello decreta la fine di carriere. Eccolo lì, quindi, il risultato. Un partito sulla via del trapasso, che ha subìto un’emorragia enorme di esponenti. Da analizzare, certo, in modo specifico e individuale. Senza soffermarsi oltre su Alfano, va notata l’esasperazione di Fitto.

Oppure la progressiva emarginazione di Verdini, privato da un giorno all’altro del ruolo di stratega (solo grazie a lui la baracca di Forza Italia non è affondata anni prima) e relegato in soffitta fino al punto in cui ha deciso di andarsene. E lo scenario quotidiano del«“tutti contro tutti», con i Capigruppo alle Camere che vanno ognuno per conto suo, la data delle elezioni amministrative si avvicina senza una strategia che sia una. A Napoli è in campo un candidato perdente in partenza. A Milano, dove tutto iniziò, è stallo. A Roma, al momento, l’unica «solida realtà», per citare lo slogan dell’ultima carta (l’imprenditore Roberto Carlino che non vende sogni) che sembra voglia giocarsi Berlusconi, è che il centrodestra sta puntando all’harakiri. La sensazione palese è dunque che non vi sia più un partito e nemmeno un leader, che preferisce i troppi galli a cantare a una proposta di rilancio e per il quale vale ormai l’adagio di Truman: «Se non riesci a convincerli, confondili». Tuttavia qualche sporadico barlume di ragionevolezza si irradia, tipo la proposta di Toti su primarie alle amministrative ed elezione per le cariche. E l’equilibrio di Mara Carfagna, con senso della prospettiva, nell’intervista che noi proponiamo oggi.

Ma rischiano di restare un miraggio in un deserto in cui le idee ormai sono gli avanzi di quelle vecchie, rivendicate senza coerenza. Perché mentre altrove, e la Le Pen lo dimostra, con un programma chiaro si scalano le montagne, qui basta un Renzi qualsiasi a scippare il sogno del partito liberale di massa. Sta a Berlusconi decidere se lo vuol permettere o meno.

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