I riflessi sull'industria del Lazio con i venti che arrivano dalla Svezia dove Northvolt chiede il fallimento: doveva elettrificare tutto l'automotive Ue, e da noi l'ex Fiat fa meno 37% di auto e più 3% in Borsa
C’è un sottile legame tra la crisi dell’automotive italiano e la condotta attuale del governo in carica. Non è una cosa così banale, perché da quando la globalizzazione è diventata fattore cardinale delle faccende economiche si è creato come una sorta di “paravento”. Quello per cui le crisi di sistema per lo più sfuggono al controllo dei nocchieri nazionali e vivono una loro vita: spettrale, ineluttabile ed affrancata dall’analisi su eventuali responsabilità di settore. Il dato da cui partire per capire che sì, i governi ce le mettono e come, le impronte digitali sulle rotte inverse delle economie che gli toccano, è quello nostrano della Legge di Bilancio.
Legge che pare taglierà dell’80% il fondo Automotive che “serve a sostenere la transizione e gli investimenti”. Lo spiega Maria Carla Sicilia su Il Foglio in maniera molto tecnica. E qui scatta una domanda che invece tecnica non lo è affatto: da quando se un settore è in crisi invece di incrementargli le risorse si riducono le stesse al lumicino? Come è potuto succedere che se uno è “malato” gli si piallano le medicine, a meno di non volerlo considerare malato terminale immeritevole di accanimento terapeutico?
La ghigliottina del Mef
La ghigliottina ce l’ha in mano il Mef di Giancarlo Giorgetti e non è la sola “arma” che sull’automotive rischia di far cadere teste. Teste come quelle degli operai di Cassino Plant, che che sono in modalità Defcon 2/3 ormai da mesi, e che sono destinatari tutt’altro che virtuali di una lettera del ministro Adolfo Urso indirizzata a Luca Di Stefano, presidente della Provincia di Frosinone.
Cosa recita quello scritto “official”? Un mezzo de profundis, a leggere tra le righe ed oltre un tono propositivo che suona farlocco assai. “C’è la possibilità di favorire l’attrazione di nuovi investitori che possano contribuire al rilancio del sito produttivo”, perché “sono in corso di valutazione le opportunità fornite dai fondi nazionali e comunitari, al fine di sostenere gli investimenti”. Vero è che la realizzazione di un impianto a biometano nell’ex area di Volla potrebbe garantire un abbattimento dei costi energetici ed un recupero di forza lavoro, ma il problema sistemico resta.
Chiaro un fatto da indicare subito ed in premessa: Stellantis non sta per chiudere Cassino Plant e non si appresta a farlo né domani né la settimana prossima. Ci ha messo sù un pacco di miliardi con i quali trasformare gli impianti: passandoli dalle linee organizzate sulla piattaforma Giorgio (quella mitica sulla quale sono nate Giulietta, Giulia, Stelvio, Grecale) a quelle organizzate sulla futuristica piattaforma Stla Large. È la piattaforma sulla quale nasceranno dal 2025 le auto full electric.
Piedimonte sedotta ed abbandonata
Allora come si spiegano le parole del ministro. Il fatto che Stellantis rimanga dentro Cassino Plant non vuole dire che ci rimarranno così tanti operai come era fino a qualche anno fa. E meno ancora ci sarà spazio per le fabbriche di componentistica che costituiscono il tessuto industriale dell’Automotive cassinate. Circa metà dello stabilimento resterà vuota e circa la metà dell’indotto non rientrerà più nei progetti della nuova auto elettrica. Ecco cosa intendeva il ministro: occorre cercare chi possa assorbire quei lavoratori e quegli impianti.
E proprio lì scattano i guai perché “l’altro” sta a Pechino. Ed a Roma piace a giorni alternati. Tanto più che da un lato la Ue impone nuove tariffe alle auto elettriche cinesi e dall’altro Pechino blocca gli investimenti. L’ossimoro di base è quello per cui Giorgetti istituì il fondo relativo decantandone l’utilità e sempre Giorgetti lo ha potato come una roverella declinandone l’inutilità. Il che pone un problema non clinico, come suggerirebbe lo scenario, ma strutturale.
Mancano i soldi per una manovra risicata e quei soldi là vanno spalmati. Il che porta a colui che delle scelte di Giorgetti deve farsi nunzio: Adolfo Urso da Padova, l’uomo che sta dando lessico e soprattutto punteggiatura alla crisi Stellantis. Ad Urso l’automotive piace poco, almeno a considerare la sua interlocuzione bipolare: proficua con l’industria di altri settori, balbuziente con il colosso che dall’anno prossimo non avrà più Carlos Tavares al timone.
Il segnale è abbastanza chiaro: se Stellantis non crede più nell’Italia per l’Automotive allora l’Italia non continuerà a pompare miliardi sui conti Stellantis ma li metterà su altri settori capaci di creare nuovo lavoro, nuova industria, nuova economia in settori che siano alternativi all’Automotive.
L’Anfia vede rosso: meno 4,6 miliardi
Parole, musica e prova provata official a cura di Gianmarco Giorda, direttore generale di Anfia, l’Associazione nazionale della filiera automobilistica. Che a margine della relazione in Parlamento di questi giorni ha detto: “Siamo rimasti sorpresi e anche un po’ delusi”. Non potrebbe essere altrimenti, a considerare un taglio netto di 4.6 miliardi esattamente al piede di una delle colonne portanti dell’economia italiana. Dove sono andati a finire quei danè?
Sono stati “flippati” alla Difesa e adesso per sostenere l’automotive italiano e, in parte, le speranze dei lavoratori dello stabilimento di Piedimonte San Germano, ci sono 1,2 miliardi. Uno scudo di legno che dovrà sopportare i colpi di norme green, dell’elettrico cinese e della scarsa propensione all’elettrico degli automobilisti europei ed italiani. O uno scudo adeguato a quelle che sono le dimensioni del nuovo impegno Stellantis in Italia. La scelta è politica l’effetto è lo stesso: meno liquidi per il comparto Auto.
Un arretramento che può avere un senso se si decide di riposizionarsi nella sfida. Cosa significa. Il generale cinese Sun-Tzu nel suo manuale L’Arte della Guerra, indicava che se il nemico non può essere battuto bisogna raggiungere con lui un’alleanza. E che la Cina sia anni avanti nello sviluppo dell’auto elettrica è un’evidenza: ha le materie prime, possiede le tecnologie. E la necessità sempre più evidente di quell’alleanza sta in una evidenza.
Northvolt e le batterie scariche
Sta tutta nella crisi del gigante tra le Gigafactory dell’Unione: la svedese Northvolt, che è passata dal dover elettrizzare con batterie anti monopolio di Pechino tutto il Vecchio Continente a presentare istanza di fallimento. Il tutto condito da due grandi dilemmi, uno inside ed uno foresto. Il primo è cruciale: i soldi rimasti continueranno ad andare a finanziare le campagne di incentivi all’acquisto o troveranno alla fine giusta casa e causa negli investimenti produttivi?
Urso è un torrente in piena: “Tutte le risorse andranno sul fronte degli investimenti produttivi con particolare attenzione alla componentistica che è la vera forza del made in Italy”.
E qui scatta il secondo problema che si fa diga alla piena della logorrea pubblicistica del ministro di Giorgia Meloni. Una diga che ha la forma di un Dragone e che si chiama Cina. Malgrado proclami che vanno avanti da mesi e le fusa di Dong-Feng per impiantarsi in Ue ed in particolare in Italia, Pechino oggi è panda e domani è tigre. E sul tema dei dazi i Paesi che hanno votato a favore sono ormai nel mirino del Dragone.
Perciò non è utile a surrogare Stellantis ed i suoi guai. “Dopo un viaggio in Cina e diversi rumors, il piano sembra però essere congelato. Il motivo è la politica ambigua del governo italiano verso Pechino. Visto che da una parte cerca di attrarre investimenti e dall’altra vota a favore dei dazi alle auto elettriche cinesi approvati dall’Unione europea”.
Meno 37% di auto e più 3% in Borsa
Dazi che sono normati da legiferati di rango che per Meloni sarà difficile superare, visto che la Via della Seta di Giuseppe Conte la minò proprio lei.
Su tutto dominano i numeri e sono numeri mesti assai. In un anno le produzione di auto è scesa del 37%. Tutto questo con un piano finanziario che rovescia la clessidra. E con Stellantis che conferma il suo target con un robusto +3% in Borsa. Il terzo trimestre del gruppo si è chiuso con un fatturato di 33 miliardi e con un mercato che “apprezza il mantenimento degli obiettivi finanziari al 30 settembre”.
Tradotto? Stellantis che “gioca” è molto più di quel che la Stellanis che dovrebbe produrre fa ai territori. e serve “un piano straordinario di politica industriale con un orizzonte di lungo termine”.
Il piano che non c’è
E quel piano c’è? No, c’è solo il proclama “sburone” di un ministro che è stato già costretto a rimangiarsi a spizzichi e bocconi il suo proclama più clamoroso.
Quello per cui la produzione italiana di vettura sarebbe stata aumentata “fino a un milione di veicoli”. Come a dire che tra la guerra nei gabinetti e la guerra di trincea nessuno ha ancora pensato ad accorciare le distanze. Magari con un occhio (anche) a Cassino Plant ed a famiglie e territorio che da esso dipendono. Ma la paura di non sfamare i figli purtroppo non è quotata in Borsa.