La grande bufala dell’acqua data ai privati

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No all’acqua ai privati. In pochi anni sono nati comitati organizzati e movimenti spontanei nel nome dell’acqua pubblica. C’è però un piccolo dettaglio che molti ignorano o fingono di ignorare: nel nostro ordinamento non è mai stata avanzata l’ipotesi di privatizzare l’acqua. Eppure in molti cadono nell’errore. Ma allora, cosa ci fa pagare a peso d’oro Acea? Il servizio. Acea non si fa pagare l’acqua: il grosso del business sta nel servizio cioè nel prendere l’acqua dalla fonte, pomparla nelle condotte, filtrarla e purificarla, spingerla fino ai rubinetti delle case della gente, raccogliere gli scarichi, depurarli, rimettere tutto in circolo.

In queste ore, il senatore Francesco Scalia – che da presidente della Provincia di Frosinone è stato il primo ad assegnare la gara per questo servizio – ha scritto su L’Unità, facendo il punto sulla situazione.

FRANCESCO SCALIA per L’UNITA’

L’approvazione da parte del Consiglio del Ministri, il 20 gennaio scorso, degli schemi di testo unico sui servizi pubblici locali di rilevanza economica e sulle società partecipate, e le vicende del disegno di legge in discussione alla Commissione Ambiente della Camera dei deputati sulla “ripubblicizzazione del servizio idrico”, hanno riacceso il dibattito sulla presunta privatizzazione dell’acqua e sull’altrettanto presunto tradimento della volontà referendaria espressasi cinque anni orsono.

La dimensione – a volte anche emotiva- del confronto è dovuta alla natura del bene acqua: risorsa preziosa e scarsa, non riproducibile, fondamentale per la sopravvivenza di ciascuno. Retaggio del referendum del 2011 è una discussione che ancora anima la dialettica politica, ma che è fondata su di un presupposto falso: l’antitesi tra acqua pubblica ed acqua privata.

Nel nostro ordinamento, come in quelli di quasi tutti i paesi europei, ad eccezione del Regno Unito, non è mai stata in discussione l’ipotesi di privatizzazione del bene acqua, né (se non per una breve parentesi) delle infrastrutture che ne garantiscono l’erogazione. L’acqua è bene pubblico; sono beni demaniali le reti; quel che può essere data in concessione ai privati è solo la gestione del servizio.

Eppure, non solo i comitati per l’acqua pubblica ma anche un autorevole esponente del mondo accademico come Stefano Rodotà hanno contestato alle nuove norme sui servizi pubblici di tradire la volontà referendaria consegnando “ai privati la gestione dei servizi idrici”. “Il punto chiave –secondo Rodotà- è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della “adeguatezza della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto referendario” (La Repubblica del 21 marzo).

Vediamo se queste critiche colgono nel segno.

Quanto al referendum che ha abrogato l’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008, la Corte costituzionale, nella sentenza di ammissione del quesito referendario (n. 24 del 2011), ha chiarito che l’esito positivo dello stesso avrebbe prodotto una «applicazione immediata della disciplina comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica».

Pertanto, a giudizio della Corte costituzionale, il servizio idrico integrato sarebbe rimasto un servizio pubblico locale di rilevanza economica, al quale, in mancanza della disciplina interna travolta dal referendum, si sarebbe applicata la disciplina europea in materia di servizi di interesse economico generale.

D’altronde, non sono stati oggetto di referendum le norme del Codice dell’ambiente, che impongono al gestore del servizio idrico ”l’obbligo del raggiungimento e gli strumenti per assicurare il mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario della gestione”.

Su questi presupposti, quindi, il fatto che lo schema di testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale comprenda tra gli stessi anche il servizio idrico integrato, al quale, fatta salva la disciplina di settore, si applicano le nuove norme in materia di modalità di affidamento dei servizi, non può certo qualificarsi come un tradimento della volontà referendaria. Tali norme, infatti, sono perfettamente coerenti con la disciplina europea in materia di affidamento di servizi di interesse economico generale, ispirata a favorire la concorrenza tra gli operatori.

Non compare, inoltre, nelle norme appena varate dal Governo ed all’esame delle competenti commissioni parlamentari per i relativi pareri, il denunciato ripristino del criterio della adeguatezza del capitale investito, cancellato dal referendum.

E’ vero che l’art. 21 dello schema di testo unico, nel disciplinare il contratto di servizio, indica, tra i contenuti necessari dello stesso, la previsione de “le modalità di remunerazione del capitale investito, ivi inclusi gli oneri finanziari a carico delle parti” (comma 3, lett. e); sennonchè tale norma non si applica al servizio idrico integrato. Infatti, l’art. 3 dello schema di testo unico, nel definire l’ambito di applicazione dello stesso, dispone che rimangono disciplinati dalle rispettive normative di settore il servizio idrico integrato, ed altri servizi pubblici locali di interesse economico generale a rete, “Salve le disposizioni in materia di modalità di affidamento dei servizi”, per le quali le disposizioni del testo unico integrano e prevalgono sulle normative di settore, “e salve le modifiche e le abrogazioni espresse contenute nel presente decreto”. Ebbene, innanzitutto l’art. 21, disciplinando il contratto di servizio, e quindi i rapporti tra gli enti affidanti e i soggetti affidatari, non può essere qualificato disposizione in materia di modalità di affidamento del servizio: è norma infatti che attiene alla fase successiva all’affidamento e non ne disciplina le modalità. Inoltre, lo schema di testo unico non abroga espressamente né l’art. 151 del Codice dell’ambiente, che dispone che il rapporto tra l’ente di governo dell’ambito ed il soggetto gestore del servizio idrico integrato è regolato da una convenzione predisposta dall’ente di governo dell’ambito sulla base delle convenzioni tipo, con relativi disciplinari, adottate dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico (dal testo unico ridenominata Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente – ARERA), né l’art. 154 dello stesso codice, relativo alla Tariffa del servizio, dai cui riferimenti il referendum ha espunto l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito.

Si può concludere, quindi, sul punto affermando l’infondatezza delle accese critiche circa il presunto tradimento della volontà referendaria. Rimane la singolarità di un servizio pubblico locale di interesse economico generale privo, per dettato normativo, di remuneratività, neanche potenziale.

L’esito referendario si è scontrato, invero, con una realtà fatta di gestioni di operatori privati preesistenti e con un fabbisogno di investimenti infrastrutturali non sostenibile dalla finanza pubblica.

Da qui i tentativi dell’AEGSI, nel definire il modello tariffario, di sostenere la compatibilità tra la copertura integrale dei costi e la remunerazione del capitale. In buona sostanza, l’Autorità ha ritenuto che l’esito referendario non avrebbe posto in discussione la copertura dei costi finanziari.

Il referendum, quindi, si sarebbe risolto nell’abolizione del tasso fisso di remunerazione e nell’eliminazione tra i costi standard riconosciuti in tariffa della remunerazione del capitale, mentre rimane compreso tra questi il costo per l’acquisizione delle risorse finanziarie. Una soluzione di compromesso, che costringe paradossalmente gli operatori privati a riversare in tariffa i maggiori costi per l’acquisizione sul mercato dei capitali delle risorse necessarie ai propri investimenti, e a non impiegare invece –con minor costo per loro e per gli utenti- risorse proprie.

Una soluzione che, comunque, ha superato finora il vaglio della giustizia amministrativa, ma che da un lato lascia aperti dubbi di compatibilità costituzionale, dall’altro rimane non adeguata alla straordinaria necessità di investimenti infrastrutturali nel settore.

C’è da chiedersi, a questo punto, se cinque anni siano sufficienti per consentire ad una nuova maggioranza parlamentare e ad un nuovo Governo –che si è caratterizzato per un importante impegno riformatore- di rimettere in discussione il risultato di un referendum fortemente condizionato dalla falsa antitesi acqua pubblica – acqua privata.

Proprio per preservare la qualità dell’acqua, limitarne l’imponente dispersione, fronteggiare l’emergenza del dissesto idrogeologico, il servizio idrico integrato ha bisogno di interventi infrastrutturali di tale portata da consigliare –se non rendere addirittura necessaria- la partecipazione di capitali privati, i quali ovviamente non vengono attratti da investimenti privi di possibilità di adeguata remunerazione.

La Corte di giustizia ha sanzionato il nostro Paese per l’inadempimento della normativa sugli scarichi delle acque reflue. La Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico ha verificato che 3 italiani su 10 non sono ancora allacciati a fognature o depuratori. La media della dispersione idrica nelle sole grandi città era al 2013 del 34%. L’AEGSI ha stimato in oltre 65,15, miliardi di euro, a valori 2011, il fabbisogno per gli interventi necessari all’ammodernamento e mantenimento della rete idrica.

Le istanze pubbliche e l’universalità del servizio sono garantite nel nostro sistema dalla presenza di poteri di regolazione particolarmente incisivi e pervasivi, fortemente implementati dal Governo Renzi con il decreto Sblocca Italia e con il Collegato ambientale.

L’attività di regolazione si articola su una pluralità di livelli: centrale, con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con l’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il servizio idrico (dal testo unico sui servizi pubblici ridenominata ARERA), alla quale ultima il D.P.C.M. 20 luglio 2012 affida –tra gli altri- i compiti di definire i livelli minimi e gli obiettivi di qualità del servizio, di predisporre una o più convenzioni tipo per la regolazione dei rapporti tra autorità competenti all’affidamento del servizio e soggetti gestori, di definire le componenti di costo per la determinazione della tariffa, predisponendo e rivedendo periodicamente il metodo tariffario, di verificare la corretta redazione del piano d’ambito e di approvare le tariffe del servizio. A livello periferico, con le Regioni che debbono individuare gli enti di governo degli ambiti territoriali ottimali, necessariamente partecipati dagli enti locali ricadenti nell’ambito, i quali enti di governo, a loro volta, devono predisporre ed aggiornare il piano d’ambito e deliberare la forma di gestione del servizio ed affidarlo.

Il Collegato ambientale garantisce l’accesso universale all’acqua, assicurando agli utenti domestici in condizioni economico-sociali disagiate, la fornitura, a condizioni agevolate, della quantità di acqua necessaria per il soddisfacimento dei bisogni fondamentali.

In tale contesto, caratterizzato da una forte regolazione di carattere pubblico, ben può la gestione del servizio essere affidata a chi –soggetto partecipato dal pubblico o concessionario privato- meglio ne assicuri l’efficienza e l’efficacia e magari concorra con propri capitali –evidentemente, adeguatamente remunerati con la tariffa- all’ammodernamento della rete.