Monsignor Spreafico al Sir: «Islamici nelle chiese, segno dei tempi ma nessuno ha pregato insieme»

Monsignor Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione Cei per l’Ecumenismo e il Dialogo (e vescovo di Frosinone) interviene nel dibattito sulla presenza dei musulmani nelle parrocchie italiane. La discussione era stata aperta all’indomani della uccisione di padre Jacques Hamel a Rouen: molti fedeli musulmani avevano voluto testimoniare il loro no alla violenza e la vicinanza al dolore della comunità cristiana, partecipando alla pregiare per il sacerdote assassinato.

Il vescovo fa ordine e spiega con il pragmatismo che lo caratterizza: «Non è stata una preghiera comune ma un segno di condivisione. Nessuno ha mai pensato di vivere una celebrazione eucaristica con persone di altre religioni. Ma è molto bello che loro abbiano voluto partecipare al momento più significativo della nostra espressione di fede per condividerla. I segni quindi bisogna capirli perché possono muovere e condizionare la storia».

L’intervento del vescovo Spreafico è stato lanciato dal Sir il Servizio Informazione Religiosa nato per iniziativa della Federazione Italiana Settimanali Cattolici e con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana. L’Agenzia è nota nell’ambiente per il suo contributo a spogliare l’informazione religiosa da quei modelli che la la divulgano con un’ottica esclusivamente ideologica, politica e partitica.

Ad intervistare il presidente della Commissione Cei per l’Ecumenismo e il Dialogo è stata Maria Chiara Biagioni.

A lei ha detto, tra le altre cose: «C’è un’atmosfera che ci fa male”, spiega. “In cui ognuno in fondo vuole affermare il suo particolare e non si accorge che il mondo sta cambiando. La storia dimostra che costruire muri e barriere non serve. La storia è fatta di migrazioni. Il mondo è fatto di uomini e di donne il cui destino è intrecciato. Nessuno si salva e si è mai salvato da solo».

 

SIR – La paura divide l’opinione pubblica e acuisce le prese di posizione. Si stanno divaricando le appartenenze culturali. Cosa sta succedendo dal punto di vista culturale?
Mons. Ambrogio Spreafico – C’è chi indubbiamente approfitta di questo momento e della paura per creare consenso attorno a se stesso. Dobbiamo evitare che questo avvenga e diventi il modello su cui noi costruiamo il nostro Paese. E’ chiaro che le paure sono comprensibili. Di fronte agli attentati, al terrorismo, a quello che avviene, proviamo paura e facciamo ricadere le colpe sui migranti. Ma i migranti arrivano qui perché scappano da situazioni di guerra e difficoltà e noi non possiamo non ammettere che in queste situazioni abbiamo delle responsabilità. Per anni abbiamo ignorato il dramma della Siria. Per anni abbiamo lasciato che la guerra aumentasse e che l’Isis prendesse il suo potere.

 

Lei è presidente della Commissione Ecumenismo e Dialogo della Cei. Non solo la presenza dei migranti ma anche il dialogo, in particolare con l’Islam, è messo alla prova. La presenza dei musulmani in Chiesa, la domenica successiva all’attentato a Rouen, è stato accolto da alcuni come una iniziativa di generosità ma da altri è stato fortemente criticato perché secondo il diritto canonico, la preghiera tra fedeli di religione diverse non si può fare insieme. Lei cosa ha da dire?
Innanzitutto ho apprezzato molto la posizione del nostro presidente della Conferenza episcopale italiana cardinale Bagnasco che ha accolto questa iniziativa indicandola come un esempio positivo che anche la nostra chiesa italiana ha dato in tante parti. Nessuno ha pregato insieme. A Frosinone è venuto un imam con una rappresentanza della comunità islamica locale. Ho detto loro che non era necessario che partecipassero alla messa.

Potevano fare un saluto all’inizio o alla fine della messa ma loro hanno voluto essere presenti e non per pregare ma per condividere un momento di preghiera nostra. E’ chiaro che se io vado in una moschea, non prego con il Corano ma condivido un momento di preghiera di un altro. Nessuno ha mai pensato di vivere una celebrazione eucaristica con persone di altre religioni. Ma è molto bello che loro abbiano voluto partecipare al momento più significativo della nostra espressione di fede per condividerla. I segni quindi bisogna capirli perché ci sono segni che possono muovere e condizionare la storia.

 

Un segno che però ha provocato reazioni molto forti. Come mai secondo lei?
Probabilmente perché non si è ragionato sul valore di questo segno perché per la prima volta i musulmani insieme hanno preso una posizione chiara e finalmente univoca nei confronti di quello che era avvenuto in Francia e contro un’azione che esprime una violenza inaccettabile e disumana e nel caso di padre Jacques ancor di più inaccettabile e disumana perché avvenuta in un luogo di preghiera e contro un uomo di preghiera.

Alcuni hanno parlato di sincretismo, altri non sopportano l’idea che c’è chi accoglie fedeli di religione islamica perché per alcuni è una religione violenta. Credo però che noi dobbiamo imparare a capire gli altri e a saper valorizzare i loro gesti di solidarietà perché solo così si costruisce il mondo.
O noi troviamo vie in cui impariamo a conoscere la vita degli altri o siamo destinati a non capire in quale direzione sta andando la storia.

 

Non crede che forse non si era sufficientemente preparati ad accogliere iniziative del genere?
Da questo punto di vista la Commissione Cei e l’ufficio Cei per il dialogo stanno facendo da diversi anni un lavoro importante pubblicando sussidi di conoscenza della religione islamica. Guardi, il dialogo si costruisce con la conoscenza e il rispetto. Non avviene da un giorno all’altro. Dialogare richiede un lavoro di grande pazienza perché devi imparare a capire l’interlocutore che hai di fronte. E ciò deve avvenire senza rinunciare alla propria identità. Quelli che dicono che il dialogo è rinuncia alla propria identità, sbagliano. Perché io posso dialogare solo nella mia identità e con la forza della mia identità. Solo così il dialogo è vero ed è maturo.

 

Quindi più i tempi sono complessi, più bisogna affrontarli con la cultura.
Esatto. C’è bisogno di cultura, di conoscenza, di capacità di intercettare le domande dell’altro, di valorizzare i segni positivi dell’altro. E’ questo il lavoro che ha fatto l’ufficio della Cei sull’islam ed è un lavoro che ritengo molto importante. C’è un gruppo di esperti che da anni si incontra e prepara schede di conoscenza.

 

Allora, come si prospetta il futuro perché ci sia un dialogo “vero e maturo” che possa accontentare tutti, calmare le reazioni, pacificare gli animi?
Credo innanzitutto che forse dobbiamo pregare di più. Perché tante volte le radici di incomprensione, di distanza, di odio che ci sono in ognuno, si possono vincere soprattutto con la preghiera. E quindi dobbiamo essere uomini e donne di preghiera. Inoltre, dobbiamo avere la pazienza di costruire ponti con gli altri, di costruire cultura. Non dobbiamo mai smettere di proporre agli altri una comprensione del mondo e della storia che ci viene dalla nostra cultura e dalla nostra fede. Infine un’ultima riflessione. Credo che ci saranno sempre quelli che sono contro il dialogo. Vedo in giro troppe contrapposizioni che nascono dalla paura ma anche tante volte dal consenso che uno vuole creare attorno a sé.

I tempi sono difficili ma ho fiducia in una Chiesa che, come la nostra, offre tanti segni di accoglienza, di amore per gli altri, di rispetto, di integrazione. Sono fiducioso.

Ma non penso che noi riusciremo a mettere mai d’accordo tutti a percorrere al via del dialogo. Ma questo non ci deve spaventare. D’altra parte anche la Chiesa e il suo messaggio universale della Misericordia di Dio, non è mai stato sempre accettato da tutti. Non lo dico per pessimismo ma solo per senso della realtà. D’altra parte Gesù è stato messo in croce e la vita di molti cristiani perseguitati nel mondo come la morte stessa di padre Jacques a Rouen ci dimostrano come la Misericordia sia l’unica cosa che alla fine ci convincerà che possiamo vivere insieme e costruire luoghi di accoglienza e di pace. Ce ne sono tanti di questi luoghi nella Chiesa e sono segni di speranza nel mondo difficile in cui viviamo.

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