Fernando D’Amata, una barzelletta per far ridere il Papa

Quasi un anno fa se ne andava Fernando D'Amata. Dall'archivio di Faccia a Faccia salta fuori questa intervista - testamento. L'ultima nella quale l'ex vice presidente della Regione Lazio racconta del suo tempo e dei protagonisti che furono accanto a lui

Se n’è andato quasi un anno fa. È stato uno di quelli con i quali si dovevano fare i conti nella Prima Repubblica. Ma anche uno dei pochi rimasto con le mani pulite. E anche per questo si è ritrovato a guidare la delicata fase di transizione nel Lazio, quando la Democrazia Cristiana si è sgretolata.

Finita un’epoca, spazzate via le mezze misure, lui invece era ancora sulla scena, anzi, si è ritrovato su un palcoscenico nazionale. Pochi sanno che è tra coloro che fecero nascere uno dei Partiti che hanno determinato le sorti di più d’un Governo. Ha rischiato, durante la sua carriera, anche di eliminare un Papa.

Se in Italia il senso dell’umorismo dei governanti fosse l’unico titolo di merito, Silvio Berlusconi sarebbe stato confermato a pieno titolo premier, ma al suo fianco, al posto di Gianni Letta, avrebbe avuto Fernando D’Amata.

Quella che segue è l’ultima intervista in cui ha parlato del suo tempo e di quelli che insieme a lui furono protagonisti. (leggi qui L’ultima barzelletta di Fernando D’Amata: addio alle mani pulite della Dc).

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Foto © ILS Archivio Andreotti
Onorevole, cominciamo con ordine, cominciamo da una frase che forse è quella che racconta più di tutte un’epoca: ‘A Frà, che te serve?

Franco… Franco Evangelisti era la mano destra di Giulio Andreotti. La mano sinistra era Ignazio Vincenzo Senese, al quale ero legato essendone stato il segretario particolare per quattro governi: due al Commercio con l’Estero e due alla Cassa per il Mezzogiorno, che era un comitato per gli interventi sul Sud. E meno male che ci siamo trovati in quei particolari momenti a stare nel governo della Nazione, (dato) che si è potuto risolvere qualche grandissimo problema di questo nostro territorio…

Intanto restiamo a quella frase, ‘A Frà, che te serve’?

Era Caltagirone che chiedeva a Franco cosa gli servisse per portare avanti un Partito, perché allora la nostra corrente era più che un Partito. Nella Democrazia Cristiana c’erano le varie correnti e si può dire che esse erano tanti Partiti messi insieme che marciavano singolarmente per colpire uniti però. Quando si trattava di raggiungere alcuni obiettivi principali le varie correnti finivano e cominciava l’azione corale per poter essere utili all’Italia”.

Chi era Franco Evangelisti? Quanto contò per la crescita della provincia di Frosinone e del Lazio?

Franco Evangelisti intanto era di Alatri, quindi era un ciociaro trapiantato a Roma, dove viveva. Era un po’ la ‘longa manus‘ di Andreotti, quello che poteva parlare ‘in nome e per conto‘. A quel tempo un po’ le situazioni erano così, come successe per De Gasperi con Andreotti, in cui uno faceva il leader e l’altro incuteva terrore e paura a tutti quelli che non volevano allinearsi. Quella formula si era spostata su Andreotti e Franco Evangelisti, che allora incuteva rispetto e ‘metteva paura’. Questo perché, come diceva Senese: ‘Il buon politico deve essere amato e temuto, se sei o solo amato o solo temuto non sei un buon politico’. Ecco, Franco Evangelisti era temuto, Andreotti era amato…

Il senatore Vincenzo Ignazio Senese © Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
E Senese?

Senese era ed è molto amato, perché è un uomo concreto, ha diversi anni ma se li porta anche bene…

Leggo dall’anagrafe: senatore Ignazio Senese, da Sora, classe 1918; gli annuari dicono ‘imprenditore cinematografico’, un po’ riduttivo… Chi era Senese per lei che ne fu un capo della Segreteria particolare?

Senese era uno che si era dato alla politica e frequentava moltissimo la segreteria di Andreotti. C’erano Evangelisti, lo stesso Senese, Lamuzi ed altri discepoli che ruotavano attorno ed hanno creato quel che sappiamo per Giulio Andreotti. Andreotti si serviva molto di loro.

Senese imprenditore cinematografico perché aveva il cinema a Sora, ma più che questo, dato che era il fratello a gestire la sala cinematografica, Senese si dilettava anche a fare il regista cinematografico. Fece qualche film che non è che abbia avuto molta fortuna, però si era cimentato in questo mondo per cercare di essere utile“.

E’ vero che Andreotti, ogni volta che faceva un governo, se dava un ministero a De Mita come Sottosegretario ci metteva Senese?

E certo. Accadde con quattro governi. Lo abbiamo fatto di comune accordo, perché non è che Andreotti si fidasse molto di De Mita e voleva sapere quello che si faceva al Commercio con l’Estero. Allora, mandandoci Senese che era il suo braccio destro veniva a sapere tutto quello che si muoveva attorno al tema. E meno male che nel ’74 ci siamo trovati in quel governo!“.

Perché?

Perché abbiamo potuto salvare la Fiat… ognuno parlava, si riempiva la bocca con la Fiat a Piedimonte San Germano, a Cassino…

Nel 1974?! Ma era stata aperta da appena due anni… Perché era a rischio?

Senese salvò la Fiat di Piedimonte San Germano perché lei stessa aveva sopravvalutato il numero delle persone da assumere. Questo perché allora la Fiat, che non era tanto stupida, i finanziamenti li otteneva in rapporto al numero degli operai che aveva. Quindi, dichiarando allora 12mila dipendenti aveva accesso ad un’enorme quantità di contributi. Ma il dato era sovradimensionato rispetto alle necessità di mercato. Dovevano però dare lavoro a 12mila persone quando non erano una fabbrica ‘tarata’ su 12mila unità. Però…

La Fiat 126 prodotta a Cassino con motori realizzati in Polonia
Perché ci fu il rischio addirittura di chiudere?

Si, rischiava di chiudere. A quel tempo qui si producevano le scocche della 126, ma i motori la Fiat li produceva in Polonia… Era ancora Est Europa, oltre la Cortina di Ferro …, in pieno territorio del Patto di Varsavia. Le produceva lì perché la mano d’opera costava meno.

Senese si trovò ad essere sottosegretario al Commercio con l’Estero nel momento in cui dovevano arrivare tutti i motori dalla Polonia. Ma l’Italia, come tutti i Paesi dell’Ovest, aveva con la Polonia (e con tutte le nazioni dell’Est) rigidi accordi e regole di scambio. Servivano per non rafforzare troppo la loro economia con i nostri dollari, né indebolire la loro con un eccesso di acquisti ad Ovest. In virtù di quelle regole Fiat aveva già pareggiato il dare e l’avere.

La conseguenza: non poteva più importare i motori necessari alla produzione fatta da 12mila lavoratori a Piedimonte. Era un di più che, a rischio personale, Senese autorizzò, perché altrimenti la fabbrica di Piedimonte San Germano con le sue 126 si sarebbe dovuta chiudere“.

Quindi, in pratica Senese firmò autorizzando l’ingresso dei motori prodotti in Polonia oltre i limiti internazionali fissati dai patti Est – Ovest…

Oltre il budget, oltre gli accordi e gli scambi. E quella sua posizione in quel momento storico salvò l’economia di tutto il nostro territorio“.

E’ vero che Andreotti in quel momento era talmente importante che Senese spulciava tra le agende a valutava quanto fosse tenuto in considerazione in base al numero di citazioni del suo nome che erano annotate?
L’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio

Successe questo: Andreotti doveva partire spesso per andare al Parlamento Europeo a rapportarsi con l’andamento della lira. Il numero 3 di allora, il ‘bibliotecario’ della Banca d’Italia, era un nostro concittadino di Alvito, Antonino Fazio, poi diventato governatore della Banca d’Italia.

Un giorno mi chiamò Senese e mi disse: ‘Chiama Antonino e digli di preparare una relazione sull’andamento della lira al momento‘. Allora io telefonai ad Antonino Fazio, sempre molto gentile, delicato e collaborativo con noi. Mi rispose: ‘Ma sono le 5 del pomeriggio!‘. Io risposi: ‘Non mi importa niente, ha detto il senatore che glie la devi preparare per domattina, perché la deve portare a Palazzo Chigi…“.

Cioè, una relazione sull’andamento della lira…

Si, sull’andamento rispetto alle altre monete europee. Fatto sta che quel povero Antonino Fazio dovette lavorare tutta la notte per portare il risultato la mattina dopo al ministero. Allora stavamo alla Cassa per il Mezzogiorno a via Boncompagni.

Venne Fazio ma Senese non era ancora arrivato, al che io dovetti telefonare a quest’ultimo dicendogli: ‘Guarda che Antonino ha portato quella relazione, vieni subito a prendertela che dobbiamo andare a Palazzo Chigi‘.

Andammo dunque dal Presidente Andreotti e Senese teneva questa relazione in mano e porgendola fece ad Andreotti in dialetto: ‘Tiè Giu’, vit che t’so preparat per domani a Bruxelles’.

Allora Andreotti si mise a leggere questa relazione e disse. ‘Bravo Ignazio!‘. Un altro giorno tornammo a Palazzo Chigi per un’altra faccenda, entrammo e il Presidente Andreotti non c’era. Allora Senese, che conosceva ogni cosa all’interno della stanza di Andreotti se ne uscì: ‘Ma tu t’crit ca i so’ proprj scem?‘. Risposi io: ‘E chi l’ha mai detto senatò?‘ E lui: ‘Viè quà’. Aprì il cassetto, tirò qualcosa fuori e vidi che era…

Aprì il cassetto della scrivania di Andreotti?

Si, lui poteva fare tutto. Aprì il primo cassetto a destra, lo ricordo come fosse oggi,:tirò fuori tutti gli appunti che Andreotti scriveva giornalmente e disse: ‘Tè, po’ dic che… guardaquà…”. C’era scritto ‘Mi consiglia Senese…’, ‘Mi dice Ignazio…’. e conosceva tutte le pagine dove veniva citato. Mi fece vedere quei passaggi con una enfasi ed una soddisfazione che non finiva mai…

E’ vero onorevole che lei conosce tutte le strade di Roma perché ne conosce tutti i ristoranti, in quanto le decisioni serie all’epoca la DC le prendeva a tavola e non nelle sedi di Partito?

Nella sostanza è vero, però ognuno dei personaggi di punta aveva un ristorante di riferimento“.

Ad esempio?
Vittorio Sbardella durante una delle cene

Sbardella aveva ‘Da Alfredo’ dietro il Palazzaccio, qualcuno aveva ‘I Due Ladroni‘ a Piazza Nicosia, sotto la sede della Democrazia Cristiana regionale. ‘Da Ezio alle Scalette‘ andavamo tutti noi segretari particolari dei ministri e dei sottosegretari; avevamo fatto un’associazione con cui risolvevamo tutti i problemi a tavola…

‘Checco al Tredicesimo’…

Lì ci andavamo con Sbardella anche, perché era vicino alla Pisana…

Avevate fatto praticamente un’associazione dei segretari particolari?…

Dei ministri e dei sottosegretari…

E risolvevate?

Tutti i problemi che c’erano nel territorio, per tutti i ministeri. Noi ce li scambiavamo e li risolvevamo. Poi dopo 15 giorni ci si rivedeva a pranzo o a cena e ci si dava le risposte sulla risoluzione dei problemi. Era la cosa più breve e concreta… E quanti posti di lavoro abbiamo creato in questo modo!?! Quanti posti di lavoro…

Quindi era diversa non solo la politica e i politici, ma anche gli uomini che con i politici collaboravano.

Il rapporto, il rapporto fra i vari uomini dei ministeri! Adesso di cosa si lamentano? Della burocrazia. E come si risolveva la cosa, come si aggirava la burocrazia? Facendo qualcosa di concreto come avevamo fatto noi con Peppino Clemente, che era il segretario di De Mita da noi chiamato ‘Maestà’. Ci vedevamo ed avevamo fatto un’associazione con tanto di tessera di riconoscimento“.

Ad un certo punto lei fu il potentissimo Assessore Regionale alla Sanità…

E contemporaneamente, per la prima volta, Vice presidente della Giunta regionale. Era una cosa che non si era mai verificata e lo sono stato dopo Tangentopoli. Cioé, quando nelle giunte regionali occorrevano uomini che sapessero e che fossero onesti. È allora che ho cominciato a fare l’assessore io“.

Si racconta di un suo proverbiale scontro sul Bambin Gesù e sul Policlinico Gemelli…
Fernando D’Amata a Settefrati

Quello fu perché io ero assessore alla Sanità e mi rendevo conto che i nostri ispettori, fra i quali c’era anche Alfredo Pallone, non potevano entrare all’interno del Bambin Gesù a fare le ispezioni e a vedere se la convenzione venisse rispettata.

C’era una giunta per cui una mamma, per stare vicino al bambino, contava su un aiuto della Regione Lazio di 90mila lire a notte, questo per ‘tenerle’ una poltrona, una sedia sdraio. Però se noi volevamo andare a fare un’ispezione al Bambin Gesù non potevamo entrare, perché l’ospedale era in territorio del Vaticano e non si dava il libero accesso agli esterni.

La convenzione la volevano, ma il libero accesso per i controllo non lo davano…

E come andò a finire?

Che sollevai il problema e fummo convocati a Palazzo Chigi, dove c’era il primo governo Berlusconi e il ministro era Costa. C’era un certo primario – vado a memoria – mi pare Marini, neurochirurgo sardo, che era stato incaricato dal Presidente Berlusconi di seguire quella faccenda. Io dissi: ‘Se questa è città del Vaticano, se questo è un ospedale di interesse nazionale, per quale motivo deve stare agganciato alla Regione Lazio? Lo spostiamo sul Ministero della Sanità‘. In quel modo entravano in campo il Ministero degli Esteri, quello della Sanità e Palazzo Chigi. Dissi: ‘E’ una questione che non ci riguarda e che pagherà il Ministero della Sanità”.

Gli ha dato una bella patata bollente..

Su quella situazione vennero fatte diverse riunioni…

Alla fine avete potuto fare le ispezioni?
L’ingresso principale del Policlinico Gemelli

Alla fine ce le hanno fatte fare. Però c’era un altro caso in piedi, Palidoro, dove c’era una convenzione con dieci disabili, i quali andavano però ad esaurimento… Ne moriva uno ogni anno o due… Cessata l’assistenza ai disabili finiva quel tipo di convenzionamento. Invece aveva fabbricato un altro ospedale molto più grande dello stesso Gemelli, dopo di che sempre loro lo gestivano…

A proposito del periodo da assessore alla Sanità, è vero che un giorno si presentò in assessorato e rivoluzionò la pianta organica di uno dei più celebri ospedali di Roma presentandosi con gli appunti scritti su un foglio di carta da mortadella?

Ah, ah, ah! Questa è un’esagerazione… Era il San Filippo Neri…

Allora è vero…

E’ un’esagerazione del presidente della Saf Cesare Fardelli che era ricoverato al San Filippo. Doveva essere sottoposto ad un intervento molto delicato. Il primario seppe che era di Cassino e durante una visita gli domandò ‘Ma lei per caso conosce questo nuovo assessore alla Sanità?’ Cesare, che intuì subito, rispose ‘Perbacco, Fernando D’Amata è mio fratrello!‘. Allora stesero un cavo lungo alcuni metri fino a portargli il telefono accanto al letto per consentirgli di chiamarmi…”

Lei era assessore in carica…

Si, mi chiamò e mi disse: ‘Sai, c’è questo mio amico, il primario, mi ha salvato la vita…’. Io gli risposi: ‘Portalo subito da me, casomai ci vediamo alla Pisana’, perché c’era Consiglio regionale. Ci vedemmo ad un bar nei giorni successivi Io gli feci. ‘Senza andare per le lunghe…‘”

Il solito ‘A Frà che te serve’ insomma…
Fernando D’Amata durante l’intervista © Archivio Teleuniverso

Mi dica un po’ cosa le serve per poter potenziare il suo reparto’. Lui mi disse cosa gli serviva ed io ‘m’appuntavo’. Non avevo nessun pezzo di carta sul quale scrivere: mi feci dare il foglio nel quale era arrotolato il panino con la mortadella del mio autista. Mi segnai lì quello che mi disse. Il giorno dopo andai in assessorato, formalizzai la delibera e mi feci la delibera dandola a Cesare. Potenziammo il reparto di Cardiologia che aspettava da anni quei macchinari, fermi per via della burocrazia… e anche della politica.

A questo proposito onorevole però, lei ha detto: ‘Io ho fatto l’assessore regionale alla Sanità e non ho lasciato debiti’. Oggi ci troviamo nella situazione per cui negli ultimi mandati…

C’erano debiti che ho trovato io…

I debiti chi li fece?

Sui debiti, se non si rivede il convenzionamento… Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Bisogna fare i conti con la realtà, cosa che noi facevamo.

Quando da noi, nel ‘mio’ periodo, venivano i farmacisti che volevano entrare in sciopero e sistematicamente lo facevano ogni ottobre dell’anno io li ringraziavo. Questo perché dicevo: ‘Se voi scioperate ad ottobre, novembre e dicembre io sono in grado di poter utilizzare i fondi della farmaceutica per pagare i fornitori che sono rimasti a secco… Anche in quel caso c’è un convenzionamento tra la Regione e l’Ordine dei Farmacisti, per il quale non possono sforare da una certa cifra. Se poi nessuno controlla lo ‘splafonamento’ di queste cifre non si puo’ dire ‘ho trovato i debiti‘.

Tu non hai controllato lo sforamento di questi debiti, logico poi che te li ritrovi. E’ una coperta che a tirarla verso la testa ti scopre i piedi…

C’è stato un piano di risanamento del debito in sanità che ha portato alla chiusura degli ospedali in Ciociaria. Compreso quello della sua città natale, Pontecorvo. Non c’era altro modo per rientrare da questi debiti?

I romani, se non c’è una presenza forte della Ciociaria, se ne strafregano: perché proprio non ti vedono. ‘Maddamò’ che questi volevano ridimensionare le Province per essere tranquilli su Roma!“.

Quindi oggi non c’è stata una presenza forte?
L’ospedale Pasquale Del Prete di Pontecorvo

Non c’è stata una presenza forte in Giunta Regionale che determinasse le scelte. Ripeto, già nel ’94 c’erano le prime avvisaglie, però non si riduceva niente… Anzi, oltre a conservare tutti i 13 ospedali della provincia di Frosinone, ottenemmo pure l’edificazione di un nuovo ospedale a livello Regionale. Dico di più: su quattro ospedali Regionali previti dal Piano sanitario regionale del ’93 alla fine ne è rimasto uno solo, perché c’ero io assessore alla sanità: è rimasto quello di Cassino“.

Che poi è stato costruito.

Si. Abbiamo cancellato Anzio, Viterbo, abbiamo cancellato altri tre ospedali che erano inseriti nel Piano, perché…

Perché non c’era una presenza forte…

Perché la presenza forte del territorio ha scongiurato questa situazione. Poi c’era, per esempio, Peppino Gentile che durante le elezioni, a Cassino diceva che io pensavo solo all’ospedale di Pontecorvo e a Pontecorvo diceva che io pensavo solo all’ospedale di Cassino. Tra noi la dialettica politica spinge anche a questo.

Come a Pontecorvo, dove per esempio dicono che io non ho fatto niente per la città. ‘È vero? Non è vero? Intanto Pontecorvo aveva tutto, dalla A alla Z, dal pronto Soccorso alle sale operatorie, otto sale, e nessuno si azzardava a toccarle!“.

Quindi oggi il problema è che manca una forte voce…

Manca una forte presenza della nostra provincia all’interno del comando regionale, della cabina di regia regionale“.

Clemente Mastella
Ma è cambiata la politica o sono cambiati proprio i politici? E’ la nuova politica che non fa contare gli uomini o sono gli uomini che non contano?

Entrambe le cose. La politica non è più politica, perché nel bipolarismo contano solo i capi. Là, in Forza Italia, contavano cinque persone, dentro l’UDC conta una persona o due… Ognuno conta… io ho vissuto con Clemente Mastella e l’UDC e contava solo lui. Ognuno quindi ha personalizzato l’appartenenza politica, e allora vanno praticamente solo gli amici personali, quelli che ti danno le migliori garanzie…

Era meglio prima quindi quando contavano i Partiti?

Prima era la gente che sceglieva i candidati. Prima di diventare assessore io sono dovuto diventare consigliere regionale con 18mila voti una prima volta e 29mila la seconda, poi ho potuto fare l’assessore. Non come ora, che viene messo lì chi decide il capo. E non solo: gli assessori sono esterni e non interni, c’è il listino con gente che entra con uno-due voti, cosa di cui abbiamo avuto dimostrazione nel nostro territorio. Dopo di che, mettendo poi tutti i birilli là e non contando nessuno di essi nelle decisioni nazionali e regionali, succede questo. E poi, come facciamo ad organizzarci? Ci mandiamo gente che non capisce nulla di sanità, organizzazione e che non ha nessun aggancio politico? In un comizio a Pontecorvo io dissi: ‘I candidati di questo mio comune al di fuori del ponte di legno non li conosce nessuno’…

A proposito di capacità organizzativa: Seconda Repubblica, la tempesta cancella subito le mezze figure, le inchieste portano via dalla scena molti protagonisti, lei si trova ad essere uno dei pochi superstiti nello scenario nazionale. Si racconta che durante una riunione, nella desolazione più generale, lei si alza e, di fatto, fonda l’Udeur. Come andò?

Conobbi Clemente Mastella in altri tempi, era Sottosegretario alla Difesa nella Democrazia Cristiana. Accadde che in provincia di Frosinone e nella nostra Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo venne Carlo Minchiatti come vescovo. Prima venne come ausiliario di Biagio Musto e venne ad abitare a Pontecorvo. Diventammo amici. Poi Minchiatti fu fatto Arcivescovo di Benevento ed io lo accompagnai lì per fargli conoscere Clemente Mastella. Già da quando lui era sottosegretario eravamo amici e ci scambiavamo favori, dopo di che quella diventò un’amicizia profonda, per cui…

Clemente Mastella (Foto Archivio OmniNapoli)
Ma è vero che quando la DC si era disgregata, con gente in lacrime, lei durante questa riunione si alza e dice: ‘Ma come, il leader ce lo abbiamo, il simbolo…’

… i voti ce li abbiamo, facciamo s’to Partito“.

E così nacque l’Udeur…

L’Udeur nacque perché prima eravamo tanti, perché c’era il compianto Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che era il capo assieme ad altri comprimari, con cui facemmo l’UdR… Dopo di che Cossiga, che faceva ‘armiamoci e partite’, si sganciò. Così noi, dopo aver fatto una manifestazione importante alla Fiera di Roma, rimanemmo orfani di un movimento. Perché allora cadde la DC, il Partito esplose come una bomba e le schegge andarono a finire in tutte le direzioni. Praticamente in tutti i Partiti che si erano costituiti c’erano i democratici cristiani così come c’erano i socialisti…

Quindi a quel punto lei disse?

Io dissi: ‘Ma insomma, vogliamo fasciarci la testa prima di rompercela? Siamo rimasti così, il leader lo abbiamo ed è Clemente Mastella, i voti li abbiamo perché ognuno di noi è depositario di amicizie nel proprio territorio, perciò andiamo avanti“.

Ma è vero che lei una volta ha rischiato di far fuori il Papa quando era ancora cardinale?

“… Naaah…”

Si sostiene che lei, raccontando le barzellette ad un pranzo, fece ridere talmente tanto l’allora cardinale Ratzinger che sua eminenza rischiò di vedersi aprire i punti di sutura che gli erano stati appena messi.

A Via della Letizia a Roma era appena morto il cardinale Baggio, e quindi gli Angelucci gli intitolarono la chiesa e la biblioteca. A presenziare a questa intitolazione venne chiamato il cardinale Ratzinger. Essendo io il Vice Presidente della Giunta Regionale e assessore alla Sanità dovetti andare a fare gli onori di casa al principe della Chiesa che era venuto a benedire ed inaugurare.

Dopo di che ci portarono in un ristorante di Velletri. Eravamo quindici persone, io avevo Ratzinger di fonte, al mio fianco c’era il segretario – quello che si vede sempre, con il volto tondo – comunque eravamo lì e dato che Ratzinger era effettivamente un cardinale che incuteva rispetto – noi andammo da Benito al Bosco, Benito era il fisarmonicista di Connie Cramer – nessuno parlava.

Io mi dissi: ‘Ma che dobbiamo farci due ore di noia co’ questo qua?’. Fu allora che mi venne in mente di dire: ‘Eminenza, se si comporta bene, dopo l’antipasto le racconterò una barzelletta’. Dopo l’antipasto Ratzinger, che scoprii essere di una simpatia unica, mi fece: ‘E la barzelletta?’. Io pensai: ‘ E mo’ che gli racconto a questo?’. Perché di solito le barzellette hanno uno sfondo...”

Un po’ hard…

Già, allora gli dissi: Un signore passava sotto il convento dei Carmelitani scalzi e sentì un rumore infernale all’interno di gente che discuteva: dalla finestra gli arrivò una scarpa in testa. A quel punto lui si girò, alzò le testa e fece A’ BUCIARDIII!!!!’.

Ratzinger cominciò a ridere e allora io presi coraggio e continuai con storielle sempre più spinte. Lui rideva sempre più di gusto e mi diceva di andare avanti. Ma continuava a a tenersi il fianco, comprimendoselo. Feci io al suo segretario: ‘Ma che succede, perché si tiene il fianco?’. E il segretario: ‘Sette giorni fa è stato operato di appendicite, ancora ha i punti aperti”. Ratzinger però mi chiese ancora, e ancora, un’ora e mezzo di barzellette…

E’ vero che andò a finire che l’ha invitata ad un Conclave?

No, ma quando lo accompagnai all’auto mi disse: ‘Lei dovrebbe partecipare a quelle pallose riunioni in Vaticano’. Io risposi: ‘Eminenza, mi inviti ché vengo. Poi me lo hanno tolto perché lo hanno fatto Papa“.

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