Internazionale: i personaggi della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

PHILIPPE CLAESSENS

Chiunque mastichi di armi da guerra, anche solo almanaccando sui video games a tema, sa tre cose. Che FN è un marchio storico delle armi automatiche. Che è belga. E che dopo i Kalashnikov le FN sono le sputafuoco più richieste, iconiche ed usate dalle truppe-canaglia di tutto il pianeta.

Il Modello Minimi della FN Herstal in dotazione ora all’Esercito Italiano

L’immagine di quei lunghi fucili d’assalto imbracciati soprattutto dalle fazioni africane dopo la sbornia socialistese post colonialismo degli anni 70/80 è icona di un modo di fare affari antico come il mondo. Quello per cui se nel pianeta c’è una guerra, guerriglia o conflitto chi fabbrica armi diventa straricco. E per cui quindi se straricchi si vuole restare bisogna che le guerre non cessino mai. Anche a costo di incentivarle.

Scoperta l’acqua più calda dell’universo veniamo a FN. La multinazionale è anche contractor dell’esercito italiano, a cui ha venduto la mitragliatrice leggera Minimi 5.56 dopo decenni di sbornia 7.62 con la tedesca MG.

Il gruppo, che ha sede in Vallonia con il governo regionale azionista di maggioranza, ha deciso di bloccare le forniture di armi. A chi? Al suo più grande cliente assieme ad Usa ed UK: l’Arabia Saudita. Perché? Perché il regno riccone fatto di sabbia, petrolio e cazzimma sta infilando un po’ troppo il piede nella porta della guerra civile nello Yemen. Lì sono morte oltre 30mila persone in pochi mesi, sotto gli occhi di un mondo orbo e grazie anche a soldati armati di mitra FN che Riyhad inviava alla fazione per cui parteggia.

FN perciò, con decisione cecchina del Ceo Philippe Claessens, ha sospeso la fornitura alla Guardia Nazionale dell’Arabia Saudita ma ha giocato di fino. Il blocco non vale per la Guardia Reale Saudita, il corpo di élite interno che ha mansioni di polizia e che quindi non bisboccia fuori confine. Quelli si limitano a fare a pezzi giornalisti scomodi del Washington Post. Riyhad resta comunque il cliente numero uno della Vallonia, con un totale di investimenti pari a 247 milioni di dollari.

Sono fetta grossa del plafond di affari di un’industria da 1,06 miliardi di dollari censiti nel 2019.

Al Jazeera English ci fa sapere che FN Herstal, che produce fucili e mitragliatrici, e John Cockerill (CMI), specializzato in torrette di cannoni per veicoli corazzati, impiegano una forza lavoro complessiva di 5000 operai più altrettanti in indotto. Che lavoreranno comunque, ma almeno sulla casella Yemen dormiranno sonni più tranquilli.

Piccole etiche crescono.

SU ZELIN

La Cina estorce le confessioni, è un fatto. Il Dragone proprio non ci riesce a mettere in binario parallelo legge, giustizia ed etica e da sempre tende ad ‘accelerare’ i procedimenti penali. Lo fa creando ad hoc il momento magico che risolve da sempre tutti i casi dubbi. Come? Torturando indagati e testi fino ad un punto per cui direbbero anche che il sole sorge ad ovest, pur di non soffrire più.

Non lo dicono solo i rapporti di Amnesty International, ora e da qualche giorno lo ribadisce la BBC. E il vecchio mantra per cui ‘se lo dice la BBC è successo davvero’ è ancora validissimo, si badi.

Zhang Yuhuan, il detenuto imprigionato per 9.778 giorni da innocente

«Non è un segreto che la polizia cinese usi vari tipi di tortura, tra cui privazione del sonno, bruciature di sigarette e percosse, per costringere i sospetti a confessare crimini. In passato interi faldoni arrivavano a sentenza con questo metodo». Lo afferma Celia Hatton, redattore della BBC World Service per l’area Asia-Pacifico. Un metodo che aveva sperimentato, nella più brutale delle maniere lui, Zhang Yuhuan.

Carneade, chi era costui? E’ semplicemente il detenuto ingiustamente condannato da più tempo in Cina. Un uomo cioè che ha scontato 9.778 giorni in una prigione-lager nella provincia di Jiangxi.

Nel 1993 era stato accusato del duplice omicidio di due ragazzi e la polizia, non avendo prove ma solo una delazione, aveva pensato bene di incentivare la sua logorrea ed incrementare l’impianto accusatorio. Come? ‘Tafazzandolo’ con una saponetta avvolta in un panno a mo’ di frombola e non facendolo dormire per 20 notti di seguito. Ammettere il crimine e smettere di soffrire erano stati un attimo. Yuhuan aveva avuto modo di denunciare trattamento e sconcio giudiziario grazie al moto di coscienza di uno dei suoi aguzzini, che aveva portato fuori un suo foglietto di denuncia e lo aveva consegnato ad un misterioso attaché di ambasciata.

Misterioso per scelta, dato che Pechino tende a fare nodi al fazzoletto grossi così con le diplomazie troppo impiccione. A quel punto tutto sembrava in stallo, perché in Cina le grida degli oppressi difficilmente trovano orecchie istituzionali. E invece un giudice ha deciso di fare il salmone e riaprire il caso.

Su Zelin è un ex membro della Corte Suprema del Popolo dequalificato a procuratore dopo certe sue prese di posizione non proprio allineate.

E anche stavolta ha fatto centro ed ha fatto un livido blu all’apparato giudiziario del suo Paese. Il nuovo dibattimento ha dimostrato l’insussistenza delle prove a carico di Yuhuan, che ha rivisto la luce in questi giorni dopo 26 anni di gattabuia e genitali martoriati.

E’ ormai un vecchio, è stanco e in Cina non c’è un Alan Parker che possa raccontare la sua storia in un film cult. Ma è vivo.

Riso amaro.

MENZIONE SPECIALE

KIRA YARMISH

Complottismo in modalità Borgia o meno, se decidi di fare la portavoce di un oppositore aperto di Putin sei una che ha gli attributi di adamantio. E Kira Yarmish è una tipa che ha scommesso tutto su un capo che ha un grosso obiettivo a cerchio disegnato sul retro bottega.

Attenzione, obiettivo non necessariamente dei dardi avvelenati veri e propri delle camarille filo governative di Mosca, ma di certo di una serie di attacchi che lo rendono gradito al Cremlino come un’orchite. Fin da quando venne arrestato per furto di legname il datore di lavoro della nostra, è tipo scomodissimo.

L’oppositore Alexey Navalny

E nelle ore concitatissime del ricovero di Alexey Navalny a Omsk, in Siberia dopo un avvelenamento sospetto quanto clamoroso, la sua portavoce ha mantenuto sangue freddo e parlesia infida. Cioè ha seminato zizzania dove era necessario ma senza esagerare con il fertilizzante. E quale modo migliore per accreditare l’immagine della spin doctor pratica e concreta che se proprio inciampa in una grana la vendemmia come opportunità? Organizzare subito un volo urgente per Berlino, dove secondo una troupe segugia di CNN Navalny è ricoverato da pochissimi giorni. Purtroppo in condizioni gravi e in conclamato avvelenamento da neurotossine.

Attenzione: Gazprom è il fornitore d’elezione della Germania, ma il dato è più da Tom Clancy che da Franz Alt.

Ovviamente la Yarmish ci è andata giù di tweet. D’altronde il suo boss è un blogger e la rete è il migliore antidoto contro lo strapotere di chi ha messo Navalny in tacca di mira. «L’aereo con Alexey è volato a Berlino. Mille grazie a tutti per il loro supporto. La lotta per la vita e la salute di Alexey è appena iniziata, e c’è ancora molto da affrontare, ma ora a almeno il primo passo è stato fatto».

A fare due conti cinici: prima Alexey era già di suo totem di libertà e collettore di views e like. Ma dopo, cioè oggi, nella sua veste sofferente di martire ospedalizzato in un reparto fuori dalla Russia, ergo fuori dal raggio d’azione dei suoi sicari, è diventato una calamita per milioni di followers. E quando starà meglio, cosa che tutti ci auguriamo fuor di merletto mediatico, da starlette con il colbacco sarà superstar planetaria. A lui basterebbe vivere, ma alla sua Pr non dispiacerebbe che facendolo bucasse il web.

Addomestica il cobra.

FLOP

KAREN BASS

Un colpo basso, anzi un colpo Bass. Per chi? Per Joe Biden e per le sue aspirazioni a prender casa a Pensylvania Avenue come presidente Usa con il vice che voleva lui. Lo hanno sferrato i due massimi rappresentanti di Congresso e governance provenienti dalla Florida, cioè il senatore Marco Rubio e la luogotenente governatrice dello stato Jeanette Nunez. E il cavallo di Troia è di quelli che danno potevano fare e danno hanno fatto. Questo a contare che quando si parla di Florida la parola comunismo diventa mantra quasi satanico.

Karen Bass

Merito, o colpa, della storica presenza nel Sunshine State dei dissidenti cubani che costituiscono gagliardissimo zoccolo ideologico. E che possono fare la differenza, per numero e clamore. Al centro della polemica, oggettivamente dal sapore un po’ di siluro teleguidato, è la rappresentante della California Karen Bass.

Costei era stata indicata più volte fra le candidate più accreditate alla vicepresidenza degli Stati Uniti se Biden arrivasse a legnare Donald Trump nel voto autunnale. Ma la Bass ha un passato militante che, nella mistica Usa, ha lo stesso sapore sulfureo del barile di Amontillado di Poe. E’ stata molto ma molto vicina alla Cuba castrista. Il che equivale a dire che è stata molto ma molto vicina a Satana in persona.

Perché Democratici o Repubblicani che siano, gli americani sono ecumenici: vedono rosso solo e soltanto quando vedono il rosso nella sua nouance socialista. Bass organizza viaggi a Cuba con la sinistra americana dal 1969 e lo fa assieme alla brigata Venceremos.

El Nuevo Herald non nasconde le sue perplessità e gioca di sponda con le affermazioni di Rubio e Nunez. Lo fa affermando che la scelta di Biden «avrebbe potuto danneggiare le sue aspirazioni elettorali con gli elettori ispanici nel sud della Florida». Insomma, i due hanno messo pulci in orecchio con la lucida consapevolezza che di animali prolifici si trattava. E Nunez in particolare ci è tornata giù di rasoio.

«Dare un voto a Biden-Bass sarebbe stato uno schiaffo a tutti i dissidenti ed agli esiliati cubani che hanno combattuto così duramente per la libertà». Baas ha replicato a muso duro, affermando che Trump e i trumpisti sciolti stanno cercando di «distrarre l’attenzione dal modo in cui lui ha gestito la crisi Covid». Si è spianata così la strada alla concorrente più accreditata, la giudice californiana Kamala Harris, una tipa tosta e giusta, che però Biden sopporta come l’herpes. Questo perché costei è stata sua rivale alle primarie dei dem per la corsa alla Casa Bianca e a suo tempo non glie le mandò a dire. (Leggi qui Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana).

D’altro canto la politica è fatta di finte, affondi e rientri, e la Bass pare non aver retto la tensione, uscendosene in questi giorni con una rivendicazione un po’ a genitali di bracco.

«Sono andata a Cuba perché lì c’è da combattere, ma non il governo, piuttosto la cultura di un popolo addomesticato». Scontentando tutti a ben vedere: i comunisti che cercavano una companera, gli elettori che cercavano una missionaria e Biden che cercava solo un po’ di pace prima dell’autunno più caldo della sua vita.

Cavillo di Troia.

NARENDRA MODI

Lo avevano votato anche perché lui si era proposto come un leader capace di mettere l’India sul binario di un laicismo più marcato. Magari senza ignorare la millenaria aura mistic del Paese. Tuttavia mettendo l’accento su scommesse future che giocoforza dovevano relegare in un cantuccio lo strapotere delle religioni.

Il primo ministro indiano Narendra Modi

Su questo assioma Narendra Modi un po’ ci ha provato, un po’ ci ha preso e un bel po’ ci si è rotto il grugno. Ed ha continuato a farlo in questi giorni, quando fra capo e collo gli si è presentata la spinosa questione di Ayodhya.

Stiamo parlando di una piccola città sacra nella zona settentrionale dell’India. Una città tanto piccola quanto candidata certa al ruolo di polveriera internazionale. Perché?

Perché proprio lì una sentenza ha messo ordine alla lunghissima diatriba fra Partito indù e Partito musulmano sulla destinazione di un tempietto. Una volta lì c’era una moschea. Poi arrivò il 1992, che per l’India è tipo i giorni del putsch di Monaco, e frange di estrema destra indù la rasero al suolo. Al suo posto venne edificato un tempio, che divenne per i nazionalisti un po’ come la Certosa di Trisulti ma più truzza, una vera scuola di sovranismo spinto.

Spinto ed anti musulmano, tanto che nell’orgia purificatrice che seguì a quello sfratto vennero uccisi oltre 2mila seguaci di Maometto. Da quel tempietto iniziò a vagire il potente neo Partito Nazionalista Indù, il Bharatiya Janata Party (BJP).

La vicenda sulla paternità spirituale di quel luogo si era conclusa solo a novembre scorso, quando la Corte Suprema aveva assegnato ai nazionalisti il diritto di andare oltre. Come? Erigendo un tempio di fianco al tempio e dedicandolo al dio guerriero e ariano Rama. Il che per un musulmano è come se di fianco alla Mecca ci si aprisse una steakhouse di maiale nero casertano.

In questi giorni sono ripartiti i disordini, con il Pakistan musulmano, il nemico di sempre di New Dehli, che soffia sul fuoco e invia sobillatori sunniti.

Modi aveva inizialmente deciso di non presenziare all’inaugurazione, non prima che la faccenda passasse da rovente a tiepida. Salvo poi fare una retromarcia a secco ed annunciare che ai primi di settembre sarà in loco a ‘benedire’ il nuovo tempio della divinità fascio-induista. Inaugurando così un clamoroso salto della quaglia che da pompiere lo rimette nei panni dell’incendiario.

C’è Modi e Modi.