Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

KATE RUBINS

Fra i circa 203 milioni di aventi diritto al voto registrati negli Stati Uniti vi sono elettori molto particolari. Lo impone la mappa eterogenea di un Paese immenso. E con essa anche la straordinaria gamma di situazioni umane che quel Paese presenta. Basti pensare ai sommergibilisti dei giganteschi battelli nucleari hunter killer classe Virginia. Quei sigari di acciaio lunghi 110 metri vagano spersi sotto i mari per mesi. E a norma di mission devono silenziarsi per lunghissimi periodi. Figurarsi poi gracchiare intenzioni di voto dell’equipaggio con gli oceani farciti dalle sonoboe dei classe Akula russi e degli Xia cinesi.

Oppure agli innumerevoli operatori delle agenzie sotto copertura. Barbe finte sparpagliate in missione negli angoli più trash del pianeta.

L’astronauta Kathleen Rubins

Ma fra tutti lei è quella che voterà dal posto più improbabile, più improbabile e più lontano. Per l’esattezza da oltre 400 chilometri di altezza, roba da affidare gli exit poll ad ET. Lei è Kate Rubins, è un’astronauta della Nasa ed ha dichiarato ad Associated Press che eserciterà il suo diritto di voto dalla Stazione Spaziale Internazionale. Quel giocattolone nell’alto dell’alto dei cieli la Rubins lo ha raggiunto da pochissimi giorni, con un volo successivo al durissimo training a Star City, fuori Mosca.

E il gancio legislativo la nostra cosmonauta ce l’ha tutto. La Nasa ha sede a Houston, che è in Texas. E il Texas, fin da quando iniziò a fare i conti con gli sciroccati che avevano messo lo spazio profondo in cima al libro dei sogni, ha dovuto legiferare lepre. Vediamo come funziona. La maggior parte degli astronauti statunitensi vive a Houston. E la legge del Texas consente loro di votare dallo spazio utilizzando un voto elettronico sicuro.

Come? Più facile a farlo che a spiegarlo. Il Controllo Missione inoltra la scheda alla stazione spaziale. Poi riceve un ‘ping’, cioè un radio messaggio compresso e velocissimo, simile ad un impulso sonar, contenente l’intenzione di voto del cosmonauta. Il messaggio ha un codice criptato. E’ destinato a svelarsi solo al ricettore, che non puo’ modificalo perché ha una key parziale, e al Cancelliere della contea.

Costui, in quanto pubblico ufficiale, vidima il voto e lo schiaffa a far numero con gli altri. Semplice, banale e grandioso al contempo. Grandioso come grandiose sono state le parole della Rubins a corredo del suo annuncio. «Penso che sia davvero importante per tutti votare. Se possiamo farlo dallo spazio, allora credo che la gente possa farlo anche da terra».

Te-le-fono-Urna.

KAREKIN II

Dopo la visita a Papa Francesco del 27 settembre scorso, ha fatto ancora di più. E lo ha fatto perché la situazione di più merita. Più di un appello al Pontefice della Chiesa di Roma, che sul caso di specie puo’ pizzicare corde etiche immense ma non muovere pedine geopolitiche.

Serviva un’azione empirica che rimettesse in asse la bussola di una pace lontana. E lui Karekin II, ha voluto dare la prima scossa. Karekin è il Patriarca della Chiesa Armena, anzi ne è il Chatolicos. Cioè il capo universale. E in quanto massima autorità religiosa dello Stato che ha capitale a Erevan è parte in causa nel rinnovato conflitto fra Armenia ed Azerbaigian, che ha la capitale a Baku.

Il patriarca Karekin II

Per capire cosa stia accadendo bisogna partire un po’ da lontano. Dai mesi concitati successivi alla caduta del gigante sovietico. Cosa accadde? Che tutte le nazioni in predicato di rivendicare zone contese tornarono a rivendicarle. Lo fecero perché gli Stati presi di mira non erano più parte dell’enorme, arcigna e inavvicinabile Urss. Madre Russia che avrebbe schiacciato come una piattola ogni pretesa ed ogni pretendente. Erano tornate ad essere solo singole nazioni. Con un peso specifico politico e militare del tutto ridimensionato.

Ecco che dunque nel 1993 armeni ed azeri iniziarono a litigare e poi a darsele su una regione contesa da entrambi: il Nagorno Karabakh. Che sulla carta è azero, ma con una enclave armena giusta giusta per muovere ardimento e truppe ‘alla D’Annunzio’. O alla Corridoio di Danzica, quando Hitler decise che bisognava inglobare nel Reich la minoranza sudeta. Una mite enclave che da anni e annorum lì si faceva i ‘casi’ suoi senza fregole pangermaniche.

Tanto spiega la storia dei popoli. La storia delle religioni poi, come sempre accade, si fece fiotto di benzina. Questo con l’Armenia cristiana e l’Arzebaigian musulmano a trazione turco-pharsi. Il conflitto dei primi anni ‘90 si era smorzato in una cenere infida che copriva brace testarda. E il fuoco ha riattecchito da un mese, con morti, eserciti schierati e diplomazie internazionali in allarme rosso. Perché Libia, Siria, elezioni e pandemia hanno distolto l’attenzione del mondo (Russia, Usa e Cina) da quel cantuccio di mappa.

E lui, Karekin II, che è diplomatico finissimo e teologo di fama mondiale, è andato alla polpa del problema. Ce lo dice Al Jazeera. Il Patriarca avrebbe inviato un sollecito ad uno dei principali sponsor delle ragioni azere. Sponsor che non poteva che essere il premier turco Recep Erdogan. Tipo losco, ma ancora vagamente intercettabile da un Occidente che un po’ lo blandisce, un po’ lo tollera.

L’Azerbaigian dipende quasi per intero dal gas naturale del Mar Nero. E la Turchia ne è diventata recentemente leader distributore dopo la scoperta di un maxi giacimento. Forse ammorbidire lo spleen di Erdogan potrebbe fare domino sull’idrofobia di Ali Asadov, il suo trucidissimo omologo azero. E Karekin ci ha provato. Perché se la teologia è lo studio della manifestazione di Dio, allora essa deve perseguire il concetto in cui forse Dio si manifesta di più: la pace.

Nutrite la colomba bianca.

FLOP

LA PTA

Ormai lo chiamano il paradosso Tik Tok. Un paradosso che deriva dal fatto semplice e basico che il popolarissimo social musicale è cinese. Ma è anche inviso a Donald Trump che le faccende cinesi, Covid incluso, le mette da tempo in punta di forcone. In più e da pochissimo è vietato in Pakistan. E la Cina quel divieto non lo ha gradito, anche se poi lei a casa sua ha vietato Twitter. Un casino insomma.

Casino planetario che una volta tanto non dipende dalla levità un po’ bambaciona dei social. Piuttosto dal fatto che il web è ancora spalmato su un mondo per gran parte retrò come i capelli impomatati del bisnonno umbertino. Perché il Pakistan ha deciso di vietare Tik Tok in nome di una ‘moralità’ che al passo coi tempi proprio non ci riesce a stare.

Il presidente del Pakistan Arif Alvi

Poi però ha fatto una mezza retromarcia, ma non in punto di etica E qui saniamo subito l’equivoco. Non è affatto vero che l’etica debba andare sempre a traino del tempo. Non foss’altro perché questo significherebbe che più si va avanti e più i costumi delle società migliorano. Il che ovviamente è falsissimo. Altrimenti dovremmo dire che le sarabande di zozzerie che si vedono nei reality sono magma etico che peppia. E non roba calda e marrò che fa l’onda come il risotto.

Però la moralità dei sistemi complessi ha l’obbligo di venire incontro quanto più possibile ad una cosa seria. Al progressivo svestirsi delle società dall’ostinazione di considerare un certo modo di vivere l’unico modo di farlo.

Ecco, la Pakinstan Telecomunication Authority invece ha una mission esattamente contraria. E cioè lasciare tutto come era prima, lasciarlo in punto di Corano militante. E combattere ogni tentativo di cambiamento. In questo filone inserire Tik Tok fra gli strumenti telematici dai contenuti «immorali e indecenti» è stato perfino doveroso, oltre che facile. L’ukase è stato talmente netto che perfino un network morbido ma ‘amico’ come Al Jazeera ha voluto vederci chiaro. E ha fatto tana. E il nome magico è Babur. Il Babur è un missile a corto raggio che il Pakistan sta sperimentando da anni per fare più gagliardo ancora il suo arsenale nucleare.

Il suo sistema di guida era mutuato dal ‘gemello’ Radong, che è a sua volta la versione cinese del Raduga russo. E la versione cinese, come tutte le versioni cinesi di ogni cosa presente sul pianeta, costa molto meno. Ovviamente costa meno su una scala economica monstre, ma pur sempre meno.

Ma Pechino, secondo un report di Al Jazeera, avrebbe alzato i prezzi. E il Pakistan ha meditato vendetta. Vendetta che ha trovato corpo, sostanza ed impalcatura etica nel divieto ad usare Tik Tok. Che non ammazza milioni di persone, al più qualche neurone alle cougar nostrane. Salvo poi trovare un accordo fra le due difese di ieri l’altro, grazie al quale la Pta ha ammesso di poter «riconsiderare l’idea».

Bimbi nel campo di mine.

WILLIAM BARR

Sette miliardi di dollari. A tanto ammonta la cifra di cui verrà privata la città di New York per disposizione del direttore del bilancio della Casa Bianca, Russ Vought. Il salasso si chiama defunding e la Grande Mela è nella black list delle amministrazioni che, con una nota ufficiale di questi giorni, verranno colpite. Da chi? E per cosa?

Il ‘mandante’ è Donald Trump, il motivo è la “condotta anarchica”. E il movente è la polizia. Non è ancora chiarissima, spieghiamola meglio. Dopo l’omicidio di George Floyd e il lungo braccio di ferro fra la parte prog della società Usa e le istituzioni repubblicane, il presidente aveva deciso di andarci giù duro. E poco tempo fa aveva stilato un documento più velenoso di un pesce palla.

Wiliam Barr

Lo spiega senza fronzoli Steven Nelson sul New York Post. Un «promemoria in cui ordinava ritorsioni finanziarie contro le città che hanno tagliato i loro budget per la polizia. E che lo hanno fatto durante le ondate di criminalità. O che hanno tollerato le proteste violente scatenate dall’uccisione di George Floyd da parte della polizia del Minnesota a maggio».

Tradotto: vanno dritti sparati in casella Cattivoni tutti i luoghi dove in endorsement alla linea “anti-sbirri violenti” si erano tagliati i fondi per la polizia.

Tuttavia per calare la briscola serviva un suggello giuridico. Non è che ti alzi la mattina e decidi che chi ha tagliato la Befana del Poliziotto è un teppista. Non lo puoi fare neanche se sei Donald Trump. Ergo a mettere la faccenda in binario di legalità e in punto di diritto ci ha pensato l’Attorney General William Burr. Cioè il Procuratore generale federale, cioè il Capo dei Capi fra i Capi degli inquirenti federali. Uno che puo’ dire quante volte deve andare in bagno anche al Procuratore generale dello Stato. E l’ha spiegata talmente ‘papale’ che non c’è stata possibilità di equivoco.

«I leader statali e locali impediscono ai propri agenti e agenzie di svolgere il proprio lavoro? Così facendo mettono in pericolo i cittadini innocenti che meritano di essere protetti». Pulito, secco e greve come solo la giustizia-bisonte a trazione Usa sa fare. Specie quando va in appeasemnet alla politica per una sua aberrante natura. Quella che vede i giudici americani essere o nominati dalle amministrazioni in carica o addirittura eletti. Il che fa di loro dei politici con la toga a tutti gli effetti.

E questo alla faccia di chi da noi latra contro la magistratura politicizzata. E con la cognizione di causa di una vongola verace addita quella Usa a modello. Guarda caso Barr è repubblicano.

Con New York in lista nera ci sono anche Portland nell’Oregon e Seattle, nello stato di Washington. Tutte città cattive, tutte meritevoli di punizione. Tutte punite dal maestro, con la complicità del secchione della classe. Quello che in gita gli si siede vicino.

Signora con la (s)bilancia.