Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

LIZARD

Poco da fare, le spy story intrigano, e ci sarà pure un motivo se sono in cima alle classifiche di gradimento di film e, per chi ancora legge, dei romanzi. E la storia regina in questi giorni è la sua, quella di “Lizard”. Lucertola, perché questo significa in inglese, è il nome in codice di un infiltrato dell’Fbi all’interno di una cellula terroristica interna agli Usa. Un gruppo di estremisti bruttaccioni a trazione negazionista forte nei confronti di Covid. Cosa aveva in mente il gruppo? Niente di che a ben vedere: rapire la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer. La retata che li aveva fermati risale ad un mese fa, ma ha figliato cose interessantissime.

Gretchen Whitmer

Ad ogni modo Lizard si era infiltrato in questo club di sciroccati che si ritrovavano a Dublino, e attenzione, ché qui scatta l’intrigo. Il gruppo era stato tampinato ed i suoi membri arrestati.

Dalle registrazioni si era desunto che il loro intento fosse quello di «rovesciare i governi statali che credevano stessero violando la Costituzione degli Stati Uniti». Ce lo dice l’austera BBC. La governatrice Whitmer si era distinta per la cura maniacale delle regole anti Covid ed era finita quindi nel mirino. Fin qui lo storico a breve termine. Ma la coda è meglio, perché è coda di lucertola, coda di Lizard. Quel nome, avevano spiegato fonti dell’Fbi, gli era stato appioppato quasi per gioco.

Questo perché la lucertola è un animale di colore verde, Dublino era lo spot da cimiciare e Dublino rimanda all’Irlanda, che è terra verde per antonomasia. Le barbe finte sono tutte un po’ così: appioppano nomignoli spersi fra i protocolli alla 007 e le mattane di chi mette il bourbon nel caffè. Dopo la notizia sulla retata era successo qualcosa. Che un secondo gruppo di simpatizzanti della causa negazionista era entrato in fibrillazione in California. Quanto bastava per entrare nei radar di un’altra centrale di ascolto del Bureau.

E uno dei suoi membri, che non esitiamo a definire il più coglione, si era fatto scappare la frase bingo. «Si, ma perché i nostri compagni arrestati volevano andare in Irlanda?». Irlanda perché Dublino dunque, Dublino che non è solo città grossa d’Irlanda ma anche cittadina Usa dell’Ohio. Esattamente quella dove il gruppo teneva i suoi summit in uno scantinato sotto un pavimento con botola di ingresso. Il risultato? Comparaggio ammesso, tape che anche il gruppo due tramava cose e arresti bis. E prova provata che fra negazionismo del Covid e neurodeficit c’è un legame strettissimo.

Teroristi e federal burini.

JOKO WIDODO

Come la Svizzera, ma in salsa di soia. L’Indonesia ha dato un secco no agli Stati Uniti che volevano fare il nido sul territorio nazionale. E lo ha fatto senza quegli scatti di orgoglio un po’ umorali con cui di solito i Davide del mondo spiazzano i Golia. No, lo ha fatto con la serena consapevolezza di dover seguire una rotta politica internazionale. Rotta tracciata ed inderogabile che è quella della neutralità.

Ma veniamo al fatto: gli Usa hanno fatto pressioni per settimane sul governo indonesiano. Per cosa? Per ottenere il permesso di scalo per i loro nuovissimi giocattoloni spia. E cioè i P-8 Poseidon. Che roba è? Aerei militari da pattugliamento marittimo costruiti dalla onnipresente Boeing.

Joko Widodo

Sessantadue tonnellate franco carico che portano in quota radar RWT a brandeggio. Cosi capaci di fare tana ad una pulce sulla camicia di un hippie a Woodstock. Con un progetto simile la nostra Leonardo sta lavorando nel Regno Unito da mesi al progetto Tempest assieme a inglesi e svedesi. In pratica I P-8 sono dei 737 civili modificati per diventare intercettori di quota. Quindi spiano, spiano tanto e bene. Tanto bene che i Poseidon sono considerati dal Pentagono la riposta più efficace al bisogno di tenere sotto controllo costante il Dragone Cinese. Un controllo che è rimasto anche in agenda di Joe Biden, si badi.

E proprio i mari indonesiani sono il teatro di questa guerra guardona in cui gli Usa hanno assoluto bisogno di sbirciare nuove creature e rotte della marina di Pechino. Perciò da luglio alla settimana scorsa servizi e diplomazia Usa, che sono un tutt’uno, avevano marcato strettissimo il presidente dell’Indonesia Joko Widodo. E come tutte le volte che Zio Sam punta una leccornia al banco e la vuole, avevano fatto balenare bastone e carota.

Il bastone? Stop alle forniture di software per i pochissimi missili terra aria delle forze armate locali. La carota? Un accordo commerciale con Jakarta per fornire due interi parchi di blindo Cougar di prima generazione a prezzi stracciati.

Insomma, una cosa mercatale che avrebbe allettato chiunque. Chiunque ma non Widodo. Secondo Al Jazeera il presidente ha prima intimato al suo ministro degli esteri di cucirsi la bocca coi media. Poi, una volta ‘portato il polpo a cottura’, con i trafficoni Usa cioè prossimi all’idrofobia, ha parlato lui. Ed ha parlato chiarissimo: «Abbiamo una lunga tradizione di neutralità e non verremo meno a questa nostra scelta. Sappiamo benissimo che ogni azione che incrementi le manovre fra Usa e Cina potrebbe renderci corresponsabili di una escalation della tensione».

«Perché il tratto di mare che bagna anche Vietnam, Malesia, Filippine e Brunei è zona rossa. Zone di rivendicazioni su acque ricche di risorse. Sono acque attraverso le quali passano ogni anno trilioni di dollari di scambi commerciali».

Per la cronaca: i trilioni sono talmente grandi che dentro i miliardi ci fanno Pasquetta. Poi la chiosa di assoluta grandeur: «Noi questo lo sappiamo benissimo. Perciò ne staremo fuori».

Politica Emmenthal.

FLOP

NESTLE’

Se ne sono accorti gli esigentissimi clienti inglesi. Che in materia di primi piatti saranno pure assimilabili ai tagliatori di teste del Borneo, ma in tema dolciumi decisamente sono di bocca egregia.

Proprio il becco buono dei customers al di là di Dover ha fatto scoprire una cosa che sta a metà fra apocalisse e reato associativo. E un po’ noi boomers italiani li capiamo pure. Ricordate i Quality Street? Per chi avesse vuoti di memoria o imperdonabili deficit sul tema, stiamo parlando di bon bon al cioccolato. Anzi, dei brownies al cioccolato forse più tirannicamente buoni della fine del secolo scorso. E pure di quelli precedenti da quando le fave di cacao approdarono in Europa, per qualcuno.

Una delle sedi Nestlé

Qui da noi il marchio esplose verso la fine degli anni ‘90 e tenne botta fino alla prima decade dei duemila. In Inghilterra i QS sono invece un’istituzione molto simile ai corvi nella Torre di Londra. E veniamo al fattaccio: i clienti inglesi si sono accorti di un orrore. Che cioè nelle confezioni di Quality Street preparate in questi giorni anche per il Natale mancano almeno quattro delle 12 varietà standard presentate al pubblico. E mancano soprattutto quelle con il caramello.

Ora, ad un inglese toglietegli magari i dominions canadesi, ma il caramello dal palato no, quella è cattiveria. Il guaio è figlio di una combo micidiale: lockdown e Brexit. Perché il primo ha spinto la casa madre Nestlè a ridurre le linee di produzione e sacrificare il brownies più ‘lavorati’. La seconda perché ha portato alle stelle i prezzi del caramello, che il Regno Unito importa per intero.

Ne sanno qualcosa i consumatori dell’inossidabile Mars, che nel Regno Unito pare che ormai abbia prezzi da cartello di Sinaloa. Il numero di telefonate, email e post di protesta per l’affronto è stato paragonabile solo agli scazzi sulla guerra nelle Falkland. Ce lo dice il Guardian. E Nestlè è dovuta uscirsene con un comunicato ufficiale. «Ci scusiamo per eventuali delusioni causate. Tuttavia speriamo che i consumatori capiscano perché è stato necessario apportare questi cambiamenti in condizioni così senza precedenti».

Per aggiungere poi che tutte le linee sono state ripristinate. Chiosando però che gli ordinativi arriveranno in ritardo perché gli stessi sono superiori alla capacità di lavoro della nuova bolla Covid. E tanti saluti al conforto della dolcezza in un momento amarissimo.

Dolce Albione.

HUGO VICKERS

Ha preso carta e penna, metaforicamente, e corrusco come l’Occhio di Sauron ha vergato punto per punto quegli step. Quali? Quelli dove a suo dire la popolarissima serie The Crown avrebbe toppato. E lo avrebbe fatto mettendo in pessima luce la Royal Family britannica, al solo scopo di creare una sorta di cupidigia da share. Hugo Vikers è uno storico serio, biografo di capocce coronate e autore teatrale. Tuttavia è caduto nel trappolone di fare il portabandiera talebano di un gruppo di persone fra cui non mancano certo due cose. Cioè nuances sciroccate e storie sottotraccia. Ad ogni modo vediamo dove a suo dire la serie avrebbe toppato sapendo di toppare.

Hugo Vickers

L’elenco ce lo fa l’immancabile Guardian (nomen omen). Le castronerie sarebbero queste: che Lord Mountbatten abbia scritto una lettera al principe Carlo il giorno prima della sua morte. Poi che la famiglia reale abbia posto trappole protocollari per umiliare Margaret Thatcher in visita a Balmoral. Inoltre che la principessa Margaret abbia ridicolizzato la principessa Diana per non essere stata in grado di inchinarsi. A seguire che il principe Carlo abbia chiamato Camilla Parker Bowles ogni giorno nei primi anni del suo matrimonio (ah no?).

Poi che la principessa Diana abbia fatto i capricci durante una visita in Australia e imposto un cambio di piano. Che la principessa Margaret abbia fatto visita a due cugini della regina in cura presso un “manicomio statale”. Che la regina abbia detto che la Thatcher era “indifferente a tutto” (lo disse ed era vero). Poi che la stessa sia stata ripetutamente vestita in modo sbagliato per Trooping the Colour.

La risposta dello sceneggiatore della serie, Peter Morgan, è di quelle che ti fanno alzare in piedi a spellarti le mani. «Non capisco perché per altre serie o film le ‘esigenze narrative’ siano cosa accettata e con The Crown invece no. A volte devi rinunciare alla precisione, ma non devi mai rinunciare alla verità. E vi posso garantire che noi non lo abbiamo fatto».

Sdegno Unito.

I LEADERS (SPECIALE USA)

Piccolo florilegio. Di cosa? Delle affermazioni ufficiali più ‘ficcanti’ in merito all’elezione più cervellotica del presidente Usa più votato di sempre. Stavolta abbiamo preferito far parlare le voci autorevoli e i leaders mondiali. Ma affidandoci ad un criterio di selezione che non è passato per il prestigio lordo di chi parlava. No, di quello poco ci frega, quello lo facevano Filini e Fantozzi con il direttore Lup Mannar. Noi abbiamo voluto fare tara. E scegliere quelli, fra i capoccia, che sull’elezione di Joe Biden e sulla sconfitta di Donald Trump hanno detto le cose più intelligenti. Ed argute, mainstream e paradossali. E piene di quel pepe che della democrazia è il vero sale, e vai di metafora culinaria che Cannavacciuolo scansati.

Joe Biden e Kamala Harris

Sia chiaro, allo stato dell’arte Biden è il presidente che gongola e Trump è il quasi ex presidente che rosica. Avranno tutto il tempo di scornarsi in punto di diritto o di assestare le chiappe spalle nei nuovi ruoli che il grande gioco della democrazia ha assegnato loro.

Ma gli altri? Che hanno detto nei giorni concitati che hanno caratterizzato il cambio della guardia in quella che Tomas Jefferson definì «una casa troppo grossa per un uomo di buon senso»?. L’Ayatollah dell’Iran Ali Khamenei, per esempio, ha giocato di paraculaggine saggezza. «C’è uno che dice che questa è l’elezione più fraudolenta nella storia degli Stati Uniti. E guarda un po’, chi lo dice? L’ex presidente in carica. E’ chiaro che chi perde grida all’imbroglio».

Mevlut Cavusoglu, ministro degli esteri della Turchia, prima di parlare deve aver letto sei biografie di Scilipoti Kissinger. «Indipendentemente da quale candidato si sia insediato negli Stati Uniti, noi perseguiamo un approccio sincero per migliorare le nostre relazioni».

Avviciniamoci pian piano verso la zona apoteosi. Apoteosi che ha iniziato a sostanziarsi con le incazzate serene parole di Patrick Chinamasa, portavoce del governo dello Zimbabwe. La domanda era di un reporter di Al Jazeera che gli aveva chiesto cosa avesse imparato il suo governo dal voto Usa. «Nulla. Sulla democrazia noi non abbiamo nulla da imparare dagli ex proprietari di schiavi». Il rumore della mascella del reporter che cappottava sul pavimento si è sentito fino in Cornovaglia.

Melania e Donald Trump

L’apoteosi è come un asteroide, di quelli che in questo marcissimo 2020 ogni tanto solcano i cieli mettendo la terra in tacca di mira. L’avvisaglia spunta con una malefica simpatica deputata laburista inglese. Lab lady che ha affidato la sua esternazione al Guardian, chiedendo l’anonimato alla fumantina direttrice Katharine Viner. Lo ha fatto nelle ore in cui, come tradizione impone, Trump ‘perdonava’ un tacchino sorteggiato per il Giorno del Ringraziamento. Trump ha salvato il tacchino ‘Corn’ e la deputata ha sentenziato: «Un’anatra zoppa perdona un tacchino. Sembra una sessione di bird watching».

Cioè, qui l’apoteosi è un valore lessicale e concettuale che si avvicina, in crescendo. E finalmente esplode con la Somma Lezione di Acume Politico che, per gli Usa, arriva dalla Russia. Dove la portavoce degli Esteri Maria Zakharova ha avuto la cazzimma lucidità di dire: «E’ evidente che gli Usa soffrono di una grave carenza. Carenza di regole negli snodi fondamentali della democrazia». Lei, Zakharova. Dalla Russia. Di Putin. Putin che è in carica da quando nacque l’Euro. Buio. Sipario. E auguri a lei per il piglio giusto nel suo mandato Mr President, ne avrà bisogno.

Mondo ti adoriamo.