Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. ATTENZIONE: da questa settimana ci spostiamo al sabato

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

LAXMAN NARASIMBAM

Deve ringraziare la mite estate inglese e le scalmane da talamo accumulate durante il lockdown precedente. Perché è stato grazie a quei due fattori che la sua azienda ha aumentato i fatturati prima del 10, poi del 12% ed oltre. E, per sua stessa ammissione al Guardian, in un certo senso deve ringraziare anche l’infedeltà coniugale dei sudditi di Sua Maestà la Regina. Infedeltà che dopo le chiusure da Covid della primavera si è fatta marea impaziente (scrivere montante pareva brutto, poi capirete).

LAXMAN NARASIMHAN

Perché lui, Laxaman Narasimbam, è il Ceo di Reckitt Beckiser, che letto così non dice nulla. Se poi spieghiamo che è la multinazionale che possiede i marchio Durex allora qualcosa si intuisce.

Ma cosa era successo? Semplice: con il lockdown di primavera le vendite di preservativi dello storico marchio leader mondiale dei condom erano crollate. Perché la vita sessuale degli inglesi, invero secondo vulgata già miserella, era relegata alle mura domestiche. Dove cioè o il cappuccio non serve o serve giusto quel tanto che basta per timbrare il cartellino di una vita sessuale sindacalizzata dal menage familiare. Roba scarsina, insomma.

La tregua estiva concessa dal coronavirus invece aveva fatto un mezzo miracolo. Consentendo un po’ a tutti di «riaccedere ad una vita sessuale massiva». Ora, una lettura del genere disegna il quadro boccaccesco di un ‘liberi tutti’ in cui l’austero popolo britannico cala a valanga in arcione alle proprie fregole represse, ma non è proprio così. Perciò mettiamola meglio via.

La linea dei prodotti Durex

Anche a non essere dei fedifraghi patentati c’è un dato. E cioè che senza figli e suocere bigodinate in giro per casa, a casa si ‘acchiappa’ meglio. Quindi un ‘liberi tutti’ sgombra magioni e crea occasioni. E Durex ha beneficiato, con la sua casa madre ed il suo Ceo, del fenomeno. Tanto che lo stesso, da inglese, dove è partita l’analisi aziendale, è diventato planetario. «La prima metà dell’anno è stata più impegnativa. Però l’allentamento delle norme sull’allontanamento sociale ha portato a un aumento della domanda per i nostri prodotti per il benessere sessuale. Fra essi Durex, che ha visto una crescita a due cifre in reddito».

E così le vendite di preservativi hanno aiutato la divisione salute di Reckitt. A far cosa? A registrare un incremento del 12,6% per i tre mesi fino alla fine di settembre. Ed ora che Covid morde forte ancora il mondo e ha innescato nuove chiusure-astinenze? Poco male, a Reckitt si sono attrezzati. Da un mese la divisione ha aperto sei nuove linee di produzione per i marchi di disinfettanti Dettol e Lysol.

Preservateam.

VLADIMIR PUTIN

Si becca il Top non tanto per meriti specificatamente attribuibili a lui. Ma perché siccome dal 1999 in Russia comanda solo lui, allora tutto ciò che lì accade di buono o cattivo a lui tocca. E stavolta gli è toccato il serto per una cosa figa. Figa e passata sottotono.

Avete presente i Giochi Olimpici di Mosca del 1980? Si, proprio quelli boicottati dagli Usa e da 65 altri Paesi per protestare contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’allora Urss. Quei giochi, quelli della XXII Olimpiade, si svolsero a Mosca dal 19 luglio a 3 agosto del 1980. Di fatto fu una prima volta per l’Urss e per tutto il blocco socialista dell’Europa orientale.

La cerimonia di apertura di Mosca 80

E perciò fu la prima volta che l’orso sovietico ebbe l’occasione di fare sfoggio culturista della sua grandezza, soprattutto organizzativa ed urbanistica. Perché mentre il suo Gruppo Alpha degli Spetsnaz espugnava il palazzo reale di Kabul bisognava far capire che sotto quei cappucci mephisto c’era una grande nazione. E perciò dal 1978 al febbraio del 1980 gli ingegneri con falce e martello in punta di compasso e squadra tirarono su circa 80 mega strutture all’insegna del brutalismo architettonico.

Lo fecero in città in parte oggi non più ‘russe’: fra Leningrado (oggi San Pietroburgo), Tallin, Kiev e Minsk. Attenzione: di solito e nella vulgata occidentale che trova sostanza soprattutto qui in Italia queste strutture sono destinate a diventare cattedrali nel deserto. Cioè è il caso di dire: una volta finiti i giochi, tutto quello che i paesi organizzatori si ritrovano sono i ruderi inutilizzati di una grandeur a scartamento ridotto. Giusto il tempo di far vedere agli altri che ci sai fare. Questo per poi far ripiombare tutto nel cascame cementizio da hangover progettuale e Italia ‘90 dacci un amen grosso come uno stadio. Così non è stato invece per l’Olimpijskij.

VLADIMIR PUTIN. FOTO © REMY STEINEGGER / SWISS-IMAGE.CH

Cos’è? E’ il più grande stadio al coperto d’Europa. Ancora oggi. Sorge sul Prospekt Mira (Corso della Pace) a Mosca. Fu costruito in tempi record, in appena due anni e mezzo, roba che noi qui in Italia in tre anni a mala pena buttiamo le prime sei betoniere di calcestruzzo e mandiamo un cesto di cotechini al dirigente in Comune. Al suo interno ci sono la piscina olimpica (15 mila posti sulle tribune) e campi per ogni sport, in particolare pallacanestro e pugilato. Ma è stato usato anche per il tennis e concerti musicali (max 35 mila posti). Tanto che lì dentro negli anni ci ha suonato gente come Metallica, Paul McCartney, Lady Gaga, Madonna, Justin Bieber e Britney Spears.

Il complesso era stato chiuso il primo gennaio 2019. Ma Vladimiro Putin ha voluto dare una scossa urbanistica a quel gigante. Come? Schiaffandolo nella nicchia di utilizzo dei grandi spot commerciali della nuova Russia, che di economia pop è ormai affamatissima. Perciò il 3 marzo è iniziata la demolizione dell’arena centrale. La struttura sarà completamente rinnovata e dopo la riapertura, prevista per il 2021, ospiterà anche cinema e ristoranti. E magari un concertone di Toto Cutugno. Così, giusto per far incazzare gli ucraini.

Zar con la cazzuola.

FLOP

MOHAMED BIN SALMAN

È il principe ereditario per eccellenza di un Paese che principeggia nel mondo grazie a petrolio e vernice occidentale. Tuttavia andrà dritto dritto in un tribunale di quello stesso Occidente che scimmiotta e disseta di ottani. Per la precisione davanti ad una corte di Washington DC.

Mohamed Bin Salman, sciamma coronato d’Arabia Saudita, proprio non riesce a chiuderla, la pratica Khassoggi. In quel faldone è contenuta la (scarna) documentazione che attesta due cose. L’omicidio ad Istambul dell’inviato del Washington Post nell’ottobre 2018 ad opera di alti funzionati dei servizi locali.

Il principe Mohammed-bin-Salman

Inoltre, la tesi non suffragata per cui quell’omicidio non fu solo il parto autonomo di una costola nevrotica del regno. No, fu la puntuale attuazione di un piano voluto proprio dal principe in persona.

Lo schema è lo stesso del delitto Matteotti. Da un lato c’è la tesi che vede il killer Dumini aver agito per compiacere il capo che aveva ‘solo’ chiesto di risolvere il problema. Dall’altro c’è quella per cui il capo chiese di risolvere il problema e spiegò papale papale come esso andasse risolto.

A riaccendere il fuoco è stata la fidanzata di Khassoggi, Hatice Cengiz. Lei e i vertici del gruppo per i diritti umani fondato proprio da Khassoggi hanno depositato una istanza di risarcimento presso un tribunale civile di Washington, citando il principe saudita. E quel documento, pubblicato in esclusiva dal solito ottimo Al Jazeera, dice cose roventi. Ad esempio che a Khassoggi venne tesa una trappola. Quale? Quella per cui, nell’ambasciata americana di Riyadh, gli vennero negati i documenti per sposare proprio la fidanzata. Gli venne chiesto di aspettare negli Usa la loro spedizione per posta.

Jamal Khassoggi

Secondo il documento quel lasso di tempo venne usato dalla Al Mukhabarat al ‘Amma, dai servizi sauditi cioè, per pianificare l’omicidio. Ad un certo punto infatti, da Riyadh fecero sapere a Khassoggi che era inutile che attendesse i documenti per posta. Se voleva averli doveva recarsi presso l’ambasciata saudita ad Istambul. Dove era stata approntata la killer-squad che lo avrebbe smembrato e ne avrebbe fatto sparire i resti. Ma tutto questo perché? Perché scomodarsi e complicarsi la vita ammazzando un editorialista di punta, americano e per di più firma di prima grandezza di un giornale Usa?

L’atto di citazione è chiarissimo. «Il piano fu elaborato dopo che gli imputati e il mandante avrebbero appreso dei piani di Khashoggi. Piani per utilizzare Democracy for the Arab World Now (DAWN), il gruppo per i diritti da lui fondato, come piattaforma per sposare la riforma democratica e promuovere i diritti umani».

Gli imputati sono stati processati in una ridicola quanto misteriosa semi contumacia. Il mandante, citato per nome, cognome e ruolo politico, è il principe. Che non poteva non sapere.

Cupola beduina.

DONALD TRUMP

Adesso che la campagna elettorale è finita e che il 1600 di Pensilvanya Avenue ha un inquilino, possiamo sbizzarrirci. Non tanto a censurare le ricette politiche dei contendenti, quanto a mettere il naso sui momenti ‘floppissimi’ in cui le stesse si sono sostanziate nella lunga e cattiva corsa per la Casa Bianca. E fra le decine di gaffes, malignità e uscite a attrezzo di bracco che hanno costellato il duello Trump-Biden alcune spiccano. Lo fanno per solenne inopportunità e castroneria cesellata, come se uno ci si fosse messo d’impegno a deragliare dal dovuto.

Donald Trump

Quasi inutile precisare che, sul tema, il più forte fra i fortissimi è stato il repubblicano. Questione di carattere e di educazione, non certo di bandiera politica. La riprova? L’abbiamo spulciata da un mazzo grosso come un bouquet di crisantemi. Partiamo per esempio da questa lettera, datata 22 ottobre scorso. Preambolo, si era nei giorni più caldi della campagna elettorale, quelli della dirittura d’arrivo e dei grandi numeri Covid tornati a far paura.

«Sono la figlia di un ex tossicodipendente. Quando Trump ha diffamato Hunter e la sua famiglia per la sua lotta contro la dipendenza ho capito. Il nostro comandante in capo prendeva in giro milioni di famiglie americane. Famiglie che erano state toccate dalla tempesta dell’abuso di sostanze. Con pessimo gusto che fa riflettere, il nostro presidente ha pianificato questo attacco durante il mese dedicato alla lotta contro le tossicodipendenze».

Insomma, che ti è andato a fare l’allora Scostumato in Capo? Ha tirato fuori la dipendenza dalla droga di Hunter Biden, figlio del suo avversario, e ci ha fatto un ricamino maligno. Non è un caso che la giovane donna che gli ha scritto, figlia di un alcolista, lo abbia chiamato con uno dei tanti appellativi del Presidente Usa.

E cioè Commander in Chief. Perché quella contro droga e dipendenze è una guerra. E il presidente dovrebbe essere il generalissimo che conduce le forze del bene alla battaglia ed alla vittoria. Non una specie di toporagno infido che puccia il dito nelle tragedie altrui solo perché sono funzionali alle sue mire da Studio Ovale. In astinenza da potere, Donaldo è andato in overdose di tamarraggine.

Esci dal tunnel.

SPECIAL FLOP

IL DAILY STAR

Gli tocca il serto di paglia marcia per la copertina più brutta del pianeta sulla morte di Diego Maradona. Con una premessa che non giustifica, ma inquadra la faccenda in punto di storia recente: gli inglesi non hanno mai amato El Pibe. E i perché di quella cosa che al di là di Dover sta fra indifferenza olimpica e odio puro risiedono esattamente nel contesto in cui maturarono due cose. Cioè l’episodio della ‘Mano de Dios” e il gol più bello della storia del calcio.

La copertina del Daily su Maradona

Episodi entrambi messi in groppone all’Inghilterra calcistica. Ma il calcio c’entrava poco con quell’aceto fra Argentina e Regno Unito, o quanto meno era in ottima compagnia. C’entravano la guerra per le Falkland, l’affondamento della corazzata Belgrano, il machismo di Thatcher. E poi l’orgoglio albicelestre di urlare “Que vivan Malvinas”. Un grido-slogan a sottolineare che quelle isole avevano perfino un altro nome, da quanto erano argentine e non inglesi. Grido smorzato sulla punta dei pugnali da assalto del Sas britannico.

Insomma, in un contesto del genere la rivalità calcistica all’interno di un mondiale fra i due paesi era minimo sindacale. Perché quando di mezzo ci sono suolo conteso e morti le cose così vanno.

Tutto questo però non giustifica affatto l’inglese Daily Star, non lo emenda da quell’orribile copertina pubblicata poche ore dopo la morte di Diego.

La foto è della partita famosa a Mexico ‘86, il quarto di finale della Mano de Dios. E a corredo campeggia un titolone che più tamarro non poteva essere: «Dov’era il Var?». Noi o vorremmo anche spiegare, dov’è che il tabloid mangiapudding ha sbagliato.

Tuttavia lo sbaglio è talmente evidente che, per rispetto di un morto e dei vivi, anche inglesi, che quel rispetto lo conoscono, la finiamo qui.

Inghilterra terra.