Internazionale: protagonisti della settimana XXVI nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

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PAPA FRANCESCO

Papa Francesco

Il rating grullo lo colloca nel novero dei Pontefici che parlano chiaro e che lo fanno anche a costo di “rompere”, ma è rating a cui manca un parametro: quello del tempismo. Perché se c’è una cosa che Papa Francesco sa fare meglio di quanto non suggerisca la vulgata mediatica su di lui, quella è “abbozzare” prima di sparare bordate grosse come calibri da marina. E se abbozzi e sei papa vuol dire che hai capito che in un dato momento il danno della verità bruta è più grosso della noia di un silenzio tattico. Silenzio come quello con cui Bergoglio ha illuso di averla fatta franca i vescovi cattolici americani che non vogliono dare più la comunione a Biden e ai leader troppo sbilanciati sul fronte dell’aborto. Una cosa alla “Zitti e buoni”, come i Maneskin ma in spartito vaticano.

Mettiamola in purezza: con 168 sì e soli 55 no l’Usccb, la conferenza episcopale Usa, ha approvato un documento formale. Cosa recita, è il caso di dire, il papello? Che nel nome del “significato dell’Eucarestia nella vita della Chiesail capo della Casa Bianca ed altri politici favorevoli all’aborto dovrebbero essere interdetti dal sacramento della comunione. Biden, che è attento alle faccende di fede ma è pur sempre un presidente che veleggia mari prog, ha liquidato la faccenda con un laconico «si tratta di una questione privata».

I suoi pretoriani al Congresso invece, con in testa la pasionaria Alexandria Ocasio-Cortez, l’hanno messa giù durissima ingiungendo alla Cei meregana di «non usare la comunione come arma politica». E per dare polpa ai loro “però” chi ti hanno tirato per la giacchetta, anzi, per la veste corale? Proprio lui, Papa Francesco.

Ma Bergoglio non si è messo a traino dei deputati dem Usa ed ha aspettato il momento giusto. Quale? Quello sufficiente a depurare la sua posizione dai veleni di una guerra fra bande. È guerra sporca che vede da un lato il clero cattolico Usa notoriamente trumpiano ex post, dall’altro i cattolici Usa affatto disposti a rinunciare alle loro prerogative dem.

Il tempo di far passare la buriana mediatica e Francesco ha caricato l’obice, scovolato e tirato la cordicella. E il botto si è sentito sulla luna, perché era il botto di una lettera ai vescovi insorti in cui il pontefice citava la frase cardine di un suo memorabile Angelus di qualche settimana fa. Eccola: «L’Eucarestia non è il premio dei santi, ma il pane dei peccatori». Perciò «Zitti e buoni».

Papa Damiano.

IL BANGLA DESH

Il presidente del Bangladesh Abdul Hamid

L’88,7% degli abitanti del Bangla Desh prega Maometto e venera Allah. Con questi presupposti ci si sarebbe aspettato che la repubblica popolare con Dacca capitale si accodasse alla lunghissima fila di Paesi a trazione islamica che oggi mettono Israele  in tacca di mira diplomatica, quando non direttamente in punta di mirino del fucile. Appena perciò è trapelata la notizia, battuta dalle agenzie internazionali, per cui Dacca ha fatto quel che ha fatto, mezzo mondo si è trovato come Breitner dopo un dribbling a rientrare di Bruno Conti al mondiale dell’82: saltato e con il didietro a grattugiare il campo.

Ma cosa ha fatto di così spiazzante il Bangla Desh? Ha rimosso la clausola storica del suo passaporto per cui il documento era valido per visitare tutti i Paesi del mondo, tranne Israele. Insomma, c’è aria di normalizzazione fra un Paese di 166 milioni di abitanti e con 145 milioni di musulmani e una nazione che ai musulmani ha sempre riservato il peggio del peggio di sé. E la decisione, robina non da poco, è arrivata dopo i fatti di Gaza e prima del nuovo corso di Bennet, quando cioè sarebbe stato molto più facile tenerlo, quel divieto, magari proclamando al mondo di essere stati pionieri di quell’ostracismo diplomatico.

I vecchi passaporti del Bangla Desh, precedenti all’introduzione di quello elettronico partita sei mesi fa e perfezionata in questi giorni, erano inflessibili. Lo erano dacché recitavano: «Questo passaporto è valido per tutti i p+Paesi del mondo tranne Israele». Più chiara di così la potevano mettere solo se ci avessero scritto «andate vicino al muro del pianto e guardatevi un film con Banfi e la Fenech, rutto e risata liberi».

Un po’ di sasso ci è rimasto perfino Gilad Cohen, vicedirettore generale per l’Asia e il Pacifico presso il Ministero degli Affari Esteri israeliano. Il politico ha prima cinguettato come un merlo e poi ha twittato: «Grandi notizie! Il Bangladesh ha rimosso il divieto di viaggio in Israele. Questo è un passo positivo e invito il governo del Bangladesh ad andare avanti e stabilire relazioni diplomatiche con Israele in modo che entrambi i nostri popoli possano trarne beneficio e prosperare».

Ok, dov’è il trucco? Il Bangla Desh non è una petroliocrazia che ha bisogno di ridisegnare le sue priorità economiche in barba alla sua storia ed ai suoi ceppi etici, è un Paese povero e scalcagnato stretto fra India e Pakistan, due colossi scomodi come ruspe in un autoscontro. Il fatto è che la maggior parte dei bengalesi ha bisogno di lavorare e moltissimi di loro si fanno assoldare dalle grandi compagnie petrolifere arabe che proprio con Israele e in Israele stanno iniziando a fare affari.

Questo il governo lo ha capito, ha capito che quegli stipendi torneranno in patria sotto forma di potere di acquisto delle famiglie. Perciò ha deciso di metterci rimedio, un po’ giocando di necessità, un po’ calando l’asso del “volemose bene”. E ha fatto centro su entrambi i fronti, perché nel Paese entreranno soldi e credito internazionale, cioè investitori, cioè altri soldi.

Profè, tengo famiglia.

FLOP

HOMELAND SECURITY

Foto: Terence Golden/DHS

Intorno al 2007 gli Stati Uniti decisero che Homeland Security, il Dipartimento per la sicurezza interna specializzato in terrorismo e calamità naturali, dovesse mettere a punto un piano operativo per tutelare tutti coloro che avevano dato un aiuto nella lotta al terrorismo. Un aiuto concreto e retribuito, si badi: in questa particolare categoria di persone rientravano ad esempio i delatori contractors, le gole profonde su dove fossero accasati talebani e jiadhisti, e gli interpreti.

Interpreti come Ameen, che sotto questo falsissimo nome ha raccontato la sua storia ad Al Jazeera English. Ed è una storia di cui si può fare polpa e sintesi in poche righe: qualche settimana fa Ameen si era visto arrivare a razzo un’auto davanti casa. Auto bulla dai cui finestrini qualcuno sparava con fucili d’assalto AkM 80 e Black Kala. Dal veicolo erano spuntati fuori quattro ceffi, ovviamente studenti taleb immagoniti dal veleno delle madrasse dietro i sagrati delle quali studiavano da cecchini e scannatutto. In una frazione di secondo Ameen aveva messo i suoi figli al sicuro ma non aveva fatto in tempo a proteggere il fratellino di 11 anni, che i ceffi avevano afferrato e portato con sé a casa del diavolo senza dire una parola.

L’epilogo lo lasciamo ad AJ: «Dodici giorni dopo, Ameen ha scoperto il cadavere senza testa di suo fratello davanti alla fattoria di famiglia, con un biglietto attaccato ai suoi vestiti: ‘Non lavorare più con gli infedeli». Perché con le truppe Usa che stanno lasciando il Paese dove hanno giocato alla guerra per anni e che in coincidenza del ventennale dell’11 settembre se ne andranno definitivamente si è posto un problema. Quale? Ci sono oltre tremila interpreti indigeni che per anni hanno lavorato fianco a fianco dei kill team delle coalizioni e dei soldati Usa. Sono interpreti che per loro e in bella vista di ogni tamarro integralista incarognito hanno tradotto interrogatori, richieste d’acqua, istanze burocratiche con le polizie locali e perfino barzellette sconce con i militari nativi.

Tutta gente che ora è in tacca di mira di coloro che dalle loro lingue a servaggio del Grande Satana hanno munto motivi di odio e rivalsa. E che aspettano solo che la Stars and Stripes venga ammainata per fare macello o che a volte neanche aspettano. Ce lo ricorda la testa del fratellino di Ameen che non è più attaccata alle sue spalle graciline da scugnizzo orientale.

E Homeland Security, che doveva presentare al governo il piano per tenere quella e centinaia di altre teste attaccate alle spalle e non lo ha fatto, se ne tornerà a casa. Lo farà sui suoi jet sornioni con i contrassegni di sconosciute compagnie commerciali. E lo farà con meno blu e più rosso sulle mani. Perché quando manca l’inchiostro della parola mantenuta arriva il sangue di ciò che quelle bugie innescano.

Usa e jet.

PAKATAN HARAPAN

Foto: RAJA FAISAL HISHAN / The Star

Cominciamo dall’ovvio, cioè da chi o cosa cacchio sia Pakatan Harapan: è la coalizione di minoranza della monarchia parlamentare della Malesia. Ora una cosa un po’ meno ovvia: la Malesia non è più quella di Mompracem e di Sandokan, che tra l’altro è il puro prodotto della fantasia di un italiano che non era mai andato oltre l’asse Valpollicella-Venezia-Torino. Sarebbe? Emilio Salgari e datemi un urrà per l’immenso Kabir Bedi. E adesso la cosa forse meno ovvia di tutte perché qui noi occidentali mediamente siamo tutti saputoni coi fatti nostri ma se sforiamo un cecio oltre Belgrado diventiamo un po’ bonobo: la Malesia è parte integrante della Belt and Road Initiative.

Cos’è? È il mastodontico piano infrastrutturale-economico cinese che ha coinvolto anche Kuala Lumpur e tutti i paesi con affaccio sul Mar cinese meridionale. Perfino la nostra Fincantieri da quelle parti ha fiutato aria danareccia ed ha messo il piede nella porta piazzando sei fregate classe Fremm nuove di pacca. Questo per dire che la Malesia con la Cina deve andarci lemme non solo perché militarmente la Cina può usarla come pavesino nel caffellatte, ma anche perché i due Paesi fanno affari d’oro.

Quando però qualche giorno fa 16 velivoli della People Liberation Army Air Force (PLAAF), ovvero forze aeree dell’esercito cinese, sono entrati bulli e teppisti nello spazio aereo della Zona Economica Esclusiva della Malesia, i malesi non l’hanno presa benissimo. Gli intrusi sono stati identificati come caccia da supremazia aerea J-20, aerei da trasporto militare tra cui un Ilyushin il-76 e uno Xian Y-20, e sarebbero arrivati a 60 miglia nautiche dalla costa del Borneo malesiano. E la Bbc ha riportato immediatamente la reazione malese a quello sconfinamento, visto come «una seria minaccia alla sovranità nazionale e alla sicurezza dei voli».

A quel punto però per Kuala Lumpur si è posto un problema: come coniugare la necessità di cazziare un intruso senza rovinare un comparaggio economico a 10 zeri? Cioè, una cosa è glissare supini di fronte a eventuali minacce alla sicurezza nazionale, un’altra è sperdere una partnership da cui la Malesia si aspetta un’impennata del Pil di tre punti. Insomma, il governo ha latrato, la Cina ha chiesto scusa ed accampato le solite giustificazioni equivocanti alla cinese e tutte le cistifellee parevano tornate in stand by.

Il nuovo travaso di bile era però in agguato e lo ha spremuto il Pakatan Harapan, che con una nota politica autonoma ha definito l’intera faccenda un «gioco bilaterale da vigliacchi».

E qui scatta la considerazione: è vero che coi palpiti di amor patrio un tanto al chilo ci nutri l’orgoglio, ma è anche vero che se di quei palpiti li usi in usta politica e per sfruculiare un Leviatano poi non nutri la pancia del Paese. Il Pakatan Harapan non doveva “abbozzare”, per carità, ma avere una visione più ampia, quello sì. Perché pure Sandokan alla fine smetteva di macellare inglesi e tughs, tornava ad essere Kabir, posava il parang e prendeva una tartina dal buffet della produzione.

Non è Mompracem.

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