Internazionale: protagonisti della settimana XXX nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

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SADYR JAPAROV

Il presidente Japarov

Sadyr Japarov è presidente del Kirghizistan, uno di quelli cioè che nelle news internazionali mainstream ha le stesse probabilità di scavarsi una nicchia di un polinesiano ad una gara di bob.

Ma da quando Japarov si è messo a fare a braccio di ferro con Centerra Gold il suo posto al sole delle cronache mondiali se lo è guadagnato di diritto.

Antefatto: Centerra Gold Inc è un colosso minerario canadese che dall’inizio degli anni ’90, dopo la caduta della madre Urss, aveva abbrancato i diritti di sfruttamento di Kumtor, una mega miniera d’oro nella regione montuosa di Bishkek. Si tratta di un budellone infernale che sforna once di biondo metallo come se sotto la crosta di quella terra brulla ci fosse Re Mida in persona a pomiciarsi tutte le rocce del circondario

Poi, due mesi fa, la pentolaccia di Kumtor aveva tenuto fede a quelle cose sataniche in cui il forcuto ceffo non finisce il lavoro con i coperchi ed era scoppiato lo scandalo. Corruzione sistematica di funzionari per chiudere un occhio sui turni di lavoro e sulle metodologie di estrazione, degrado ambientale, inquinamento massivo e neocolonialismo spinto avevano fatto diventare Kumtor un tangentificio talmente grosso che perfino la vicina Cina al confronto era sembrata la Repubblica di Platone. 

A sanzionare quel pacchetto clamoroso di sozzume ci aveva pensato un tribunale, in virtù del fatto che gli accordi del ’94/95 prevedevano come il Kirghizistan fosse proprietario al 26% della miniera. Le consulenze avevano accertato che la dirigenza aveva scaricato tonnellate di mercurio (usato per la separazione meccanica dell’oro dalla roccia madre) sui ghiacciai della zona, il tutto per un danno da 3 miliardi di dollari. Perciò poco da fare: Centerra Gold doveva pagare il danno cagionato o sloggiare.

La miniera Centerra Gold in Kumtor (Foto: Centerra Gold Inc.)

Ora, cosa accade quando uno stato sovrano con l’appeal di un condominio si mette a muso duro con una multinazionale gigante che ha mezzi per corrompere tutto ciò che si muove al di sopra dell’equatore? Che si va in stallo, uno stallo che avvantaggia il convenuto (e i suoi avvocati) e mette il ricorrente nell’angolo di chi le busca. 

Perciò Sadyr Japarov l’ha pensata e pesata fina, e invece di incartarsi in una rissa giudiziaria lunga e defatigante, ha calato l’asso. Eccolo in step: proposta di commissione parlamentare appoggiata da deputati che il presidente ha allettato con incarichi di governo, piano di commissariamento trimestrale della miniera ad opera dello stato e nazionalizzazione tout court della stessa in firma alla scadenza del trimestre, con voto palese. E di voto plebiscitario si è trattato, visto che il capo dello stato ha concesso all’opposizione di infilare il piede nella porta di alcuni spot vitali dei servizi in cambio dell’appoggio in aula.

Scott Perry, presidente e CEO di Centerra, non ha gradito ed ha ricordato al presidente che nel ’94 il Kirghizistan riuscì a sollevarsi dalla polvere del socialismo puro proprio grazie alla società che diede l’input iniziale alla sua economia. E nel merito ha ribattuto: “Il sequestro della miniera si basa su informazioni false e accuse infondate che minano tutto ciò che abbiamo costruito insieme. Temiamo che l’azione ingiustificata del governo metterà a rischio migliaia di posti di lavoro ben retribuiti e le attività di centinaia di fornitori kirghisi”. Praticamente una minaccia travestita da analisi geopolitica. 

La risposta di Japarov su Al Jazeera riecheggia i fasti di quando i kirghisi erano Sciiti e facevano venire la tremarella anche alle tribù di Gengis Khan: “L’unica cosa che il mio Paese doveva temere era che i vostri appetiti diventassero fame incontrollata, perciò abbiamo votato perché facciate una dieta, è per il vostro bene: il sovrappeso fa male al cuore“.

Ha un cuore d’oro.

RAVIKIRAN SIDDI

Ravikiran Siddi

Si chiama Ravikiran Siddi. È come qualsiasi altro corridore con il sogno di Olimpia nella testa, nel cuore e nelle gambe secche e nerborute. Lui vuole solo correre più veloce. E non è detto che non ci riesca: il record personale del 19enne nei 100 metri è di 10,8 secondi. Il record nazionale indiano è di 10,26 secondi mentre il record mondiale di Usain Bolt è di 9,58 secondi. “Se ci riuscirò, il nome Siddis brillerà“, ha detto, riferendosi sia al suo cognome che alla comunità di origine africana a cui appartiene. 

Già, perché Ravikiran è indiano ed africano al tempo stesso. Appartiene ad un’etnia di quelle che se non ti dicono che esistono devi “fa a fidatte” o devi spulciare Wikipedia. La comunità dei Siddi, che vive nelle valli orientali dell’India, discende da gruppi tribali dell’Africa sud orientale tra cui i nobilissimi Bantu che fecero vedere sorci verdissimi perfino agli spocchiosi inglesi di Vittoria.

Secondo alcuni resoconti, i Siddi (ritenuti una variazione del termine Sayyidi, un titolo nobiliare in alcuni gruppi africani) furono portati in India come schiavi dai commercianti arabi intorno al settimo e all’ottavo secolo. E praticamente mezzi schiavi sono rimasti: gli indiani li vedono come estranei a causa dei loro capelli crespi e dei loro lineamenti.

Insomma, i Siddi sono discriminati, molto e con cattiveria assoluta. Un esempio? In India li chiamano “orsi neri“. E Ravikiran, che si allena per vincere i 100 metri alle prossime Olimpiadi con la bandiera indiana a fargli da coperta ruvida, ha notato che quando viaggia attraverso l’India per le competizioni le persone lo guardano come se fosse uno straniero. Si, i loro occhi indugiano sui suoi capelli e sul colore della pelle. 

Poi, qualche giorno fa, un direttore di gara gli ha detto a fine allenamento che “gli orsi non dovrebbero correre, ma solo mangiare miele e rifiuti“. Ravikran non si è scomposto, e prima della gara si è presentato ai blocchi di partenza con una pelle di talpa attorcigliata al polso. 
Le “Talpe” erano uno degli “impi“, reggimenti del popolo Bantu, più quotato in Africa. Era un reggimento glorioso che in cento battaglie tenne in scacco gli spocchiosi inglesi e cancellò dalla faccia della terra quelli di Lord Chelmsford nel 1879.

Ravikiran ha risposto con l’orgoglio alla provocazione ed ha ricordato a se stesso e al mondo intero le sue origini. E ha vinto due volte, perché ha azzittito un giudice razzista e perché tra l’altro ha vinto anche la gara.

Più veloce del razzismo.

FLOP

LA NATO 

Il passaggio di consegne in Afghanistan (Foto: Senior Airman Kat Lynn Justen)

Non “cielodice” quasi nessuno ma non è uno stornello complottardo fake da grulli social: in Afghanistan i talebani stanno davvero rioccupando tutti i territori che via via le forze militari Nato stanno sloggiando. Da noi in Italia la sola polemica era stata quella sull’assenza di papaveri di rango ad accogliere i nostri ultimi parà, ma lo scenario che i baschi amaranto si sono lasciati dietro è più che desolante, è inquietante.

L’offensiva talebana ha di fatto rimesso quasi tutto il Paese sotto il tallone dei Matti Mitraglieri delle Madrasse. Un Paese gigantesco ricordiamolo ché Rambo 3 non ci ha aiutati.

I distretti che sono già (ri)caduti in mano taleb sono stati più di ventuno solo nelle ultime settimane, il che porta il cucuzzaro di quelli in mano agli studenti barbuti ad un agghiacciante totale: più di un terzo dei 398 in cui l’Afghanistan è diviso. E i rioccupanti non lesinano bollettini vittoriosi su operazioni in cui la pubblicistica sburona fa il paio con i dati empirici: il negoziatore talebano Shahabuddin Delawar ad esempio aveva muggito da Mosca dove era in visita che “l’85% del territorio dell’Afghanistan” è sotto il controllo del gruppo, compresi circa 250 dei 398 distretti del Paese. Sono balle parziali, ma parziali per entrambi i contendenti, con i talebani che si allargano e La Nato che minimizza. 

I contingenti militari europei sono andati via a mazzi da settimane tranne gli onnipresenti e ambigui turchi, mentre il Pentagono ha rimesso in carlinga dei suoi C 17 Globemaster III anche gli ultimi 2.500 militari del suo contingente monstre.

Base aerea Usaf in Afghanistan (Foto: courtesy of the U.S. Air Force)

Alle truppe afghane sono state riconsegnate in tutto sei basi e di fatto, a Kabul, di americano ci sono solo le 650 divise degli altrettanti marines che presidiano l’ambasciata. E attenzione, in alcuni casi l’abbandono di queste basi ha rasentato l’onta dei codardi o l’indifferenza dei furbi, come a Bagram, dove secondo il generale Asadullah Kohistani e l’informatissima Bbc le truppe Usa hanno lasciato la base in silenzio alle 3 di notte, fatto che le forze afghane hanno scoperto solo alcune ore dopo, al risveglio. 

La Nato doveva coordinare un rimpatrio più slow, controllato e che evitasse recrudescenze di occupazione e rappresaglia, ma non lo ha fatto malgrado il protocollo dei governi glie ne desse facoltà. Si è limitata a sperdere comunicati di gloria imperitura per le redazioni di mezzo mondo ché Miniculpop scansati. 

Perché è vero che la colpa è sempre dei decisori nelle stanze coi velluti, però qualche volta anche gli attuatori nelle war room cadono nel tranello della fretta birbona di chi ha studiato la strategia solo sui libroni di accademia. Lo aveva detto bene il generale Norman Shwarzkopf, tamarrissimo conducator di Desert Storm in Iraq nel 1991: “Tieni la posizione anche quando una posizione da tenere non c’è più, il nemico capirà“.

Aridatece l’Orso.

KAIS SAIED

Il presidente tunisino, Kais Saied

Presente quando ti stanno menando a calcetto ma il maledetto che ti sta sfasciando gli stinchi si ostina a dirti nell’orecchio che contestualmente ti morde a sangue che lui sta solo giocando?

Ecco, più o meno è quello che sta succedendo in Tunisia. E in particolare a Tunisi, dove il presidente in carica Kais Saied ha sciolto il Parlamento per un mese, cacciato il premier Hichem Mechichi e fatto fare irruzione armata nella redazione locale di Al Jazeera chiudendola. Tuttavia da quattro giorni si ostina a dire che no, “non si tratta di un colpo di Stato

È una questione di prospettive insomma, dove c’è chi vede la Tunisia spersa nel caos dopo la Rivoluzione dei Gelsomini di 10 anni fa e chi la vede raggiante e reattivo faro di democrazia che mette in scacco le zozzerie che la rivoluzione medesima aveva innescato. Con le primavere arabe è sempre un po’ così: con l’aiuto dell’Occidente salta il tappo delle teocrazie tiranneggianti e si vota. Poi al potere ci vanno i laici affamati, poi la loro fame corrompe tutto e alla fine uno di loro decide che è tutto da rifare e spara nel mucchio sotto gli occhi dell’Occidente che aveva messo in moto tutto.

E lo fa quasi sempre con la Costituzione in punta di mitra, come Saied, che ha detto: “Ho deciso di assumere il potere esecutivo con l’aiuto di un capo di governo che nominerò io stesso. Lo prevede la Costituzione, ho adottato le decisioni richieste dalla situazione per salvare Tunisi, lo Stato e il popolo tunisino. Chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare al primo anno di scuola elementare, io sono stato paziente e ho sofferto con il popolo tunisino“. 

Poi ha spento il microfono, licenziato il lessico liberal, messo le mostrine in vista e, dopo non aver escluso ulteriori misure, ha sperso mazzi di poliziotti a picchiare la gente in strada. In strada e nella redazione della tv panaraba Al Jazeera, che è da sempre vicina alla Fratellanza Musulmana e legata anche al partito islamista di opposizione Ennadha. E se manganelli la gente in strada, chiudi il parlamento e silenzi i giornalisti e poi dici che non stai facendo un colpo di stato allora almeno un contro fallaccio te lo meriti. Come il tizio che a calcetto ti sfascia gli stinchi mentre ti dice che non lo sta facendo. Il tizio che poi negli spogliatoi picchi.

Gelsominchia.