Internazionale: protagonisti della settimana XXXIV nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

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L’OREL

Il sottomarino nucleare K266 Orel

In una spy story di Patrick Robinson l’Orel ci sarebbe stato come a casa sua, che è il mare scuro sotto la superficie, molto sotto. L’Orel è un sottomarino nucleare russo della classe Oscar II che a fine luglio, dopo aver partecipato alle solenni celebrazioni con cui  Flotta del Baltico celebrava il 325esimo anniversario della marina russa che cade il 25 luglio, aveva avuto un problema. Piccolo step: quando un sottomarino nucleare russo ha un problema la vastità dei guai che quella condizione innesca in geopolitica è vasta come la mano di Dio che toglie i petali all’universo. 

Ad ogni modo, come da copione, sulla natura del “problema” dell’Orel è calata una cappa di segretezza tale che neanche la marina danese accorsa a dare una mano ci ha capito nulla. Si sa solo tramite il Barents Observer che al battello si è affiancato come un molosso da guardia il cacciatorpediniere della classe Udaloy “Vice-Ammiraglio Kulakov”. La nave lo ha preso a rimorchio ed ha fermamente declinato ogni offerta di aiuto. Secondo step: non è che la Danimarca abbia un’anima boy scout, è solo che nessuno vuole nei paraggi delle sue acque territoriali un coso spinto da turbine nucleari che grippa. 

A quel punto, come in ogni spy story che si rispetti, sono entrati in gioco gli Usa. Con cosa? Con un “nuke sniffer”. Cos’è? È un areo spia di quarta generazione, un WC 135 Cinstant Phoenix” dell’Usaf, che in pratica “annusa” l’ambiente che sorvola a caccia di isotopi radioattivi derivanti da esplosioni nucleari o da fughe radioattive. E il velivolo ha continuato a battere la zona come un bracco alato fino a pochi giorni fa, quando tramite l’ambasciata russa a Washington è stato fatto recapitare un messaggio. 

E si è trattato di messaggio di quelli che dimostrano come anche i russi, magari meglio ancora se carburati da una buona vodka e da un incidente nucleare risolto, a volte sappiano fare humor. Il testo è stato fatto trapelare da un fonte di ambasciata alla CBS ed è roba da incidere nel bronzo delle faccende che da serissime diventano facete: “Rinchiudete il segugio, la lepre sta benissimo”.

A volte non amarli è impossibile.

NASIRA MANOJEE

Foto: Lolame / Pixbay

Nasira Manojee è pakistana è ha fatto il vaccino anti Covid: lo ha fatto in un Paese dove essere pro vax non è certo un’eresia, ma esserlo pur essendo transgender è un atto di coraggio vero. E lo è per due motivi: il primo è culturale. Sebbene dal 2018 l’arcigno parlamento pakistano abbia riconosciuto quello che lì chiamano “il terzo genere” ed abbia conferito ai trans diritti fondamentali come la possibilità di votare e scegliere il proprio genere sui documenti ufficiali, la situazione per loro non è rosea. Nei contesti pubblici li picchiano un po’ tutti e sono più le volte che la polizia ride assieme ai picchiatori di quelle in cui interviene in difesa dei picchiati.

Il secondo motivo è più immanente: la più parte dei transgender pakistani, proprio perché socialmente sparata ai margini, vive di sesso veloce tariffato al ribasso in bettole ed angoli delle città, e molti, moltissimi di loro sono immunodepressi. Perché? Perché contraggono l’Hiv e lo curano in maniera basica e poverella come le loro vite. 

Lo ha spiegato proprio lei, la 42enne Nasira, ad Al Jazeera English uscendo dall’hub vaccinale anti Covid: “Avevo ed ho una gran paura. Assumo farmaci antiretrovirali dal 2017 e una mia amica mi ha detto che potrei morire, però non voglio correre il rischio di morire per due cose e allora ho deciso di correre un rischio solo: perciò mi sono vaccinata. Se arriverò a domani vorrà dire che ho avuto ragione”. Essenziale ma bellissimo.

Bellissimo e soprattutto utile perché educativo. Come mai? Perché nella comunità trans pakistana, che non conta 10mila persone come dicono i perbenisti in turbante ma oltre mezzo milione su 220 milioni, la storia di Nasira ha fatto il giro dei social e dei gruppi di messaggeria “interni”.  BBC Asia sostiene che negli ultimi 15 giorni in Pakistan l’incremento delle persone affette da Hiv che hanno deciso di vaccinarsi contro il covid è rilevabile in percentuali intorno al 2%.

E forse il coraggio di Nasira c’entra qualcosa. O forse dovrebbe entrarci.

Prendete esempio, please.

FLOP

TWITTER

Osvaldo Baldacci, compianto guru dei geografi italiani, se la sarebbe goduta, a leggere di questa storia. Già, perché era lui che ribadiva a pie’ sospinto che in fondo la geografia non esiste se non nella metrica dell’uomo. E proprio faccenda di uomini è questa, di uomini col turbante che vorrebbero tirar giù l’uccellino di Twitter a colpi di doppietta Purdey e chi se ne frega dell’assist coloniale ché il signor Purdey le doppiette le faceva davvero impeccabili. Nello specifico sono gli indiani che hanno preso di fiele con Manish Maheshwari, che di Twitter-India è il manager di riferimento. Perché? Perché il tizio non avrebbe vigilato sulla IT governance, e qui ci perdiamo per un attimo. 

Si tratta degli standard con cui  un’azienda gestisce i suoi sistemi informatici, e per un’azienda che informatica ci è nata in praticamente si tratta di Bibbia, Corano e Torah messi assieme. In pratica Twitter India avrebbe mostrato una mappa del Kashmir ma non includendo l’area dell’Uttar Pradesh nell’India. Insomma, è come se una mappa Twitter indicasse che il Veneto è (ancora) asburgico o che la Sardegna è mercanzia savoiardo-franzosa. Non c’è bisogno di ricordare che la zona del Kashmir è fra le dieci aree più urticanti del pianeta, contesa com’è da anni e annorum fra l’India e il Pakistan. 

E l’indignazione dei diretti interessati si è manifestata attraverso quelli fra loro che più di tutti sono sensibili al tema, vale a dire i ceffi del gruppo di estrema destra Bajrang Dal per mezzo del loro capoccia assoluto  Praveen Bhati. Costui ha presentato una denuncia in cui accusa il manager di “alto tradimento”, ma qui le scalmane dei sovranisti da trimurti interessano poco, abbiamo già i nostri di cui esser satolli. Molto più interessano le reazioni mainstream degli indiani qualunque, dei signor Rossi col turbante, e lì veramente in pochi ci sono andati leggeri. 

Un’ondata di indignazione talmente forte e sentita, esplicitata da frasi talmente soavi e discrete che se fossimo nei panni del signor Maheshwari avremmo già piallato il cavallo dei pantaloni a furia di ravanarci sopra. Un tweet per tutti è quello di un umile guardia di frontiera che nell’Uttar ci si è accasato: “Questo atto ha ferito i miei sentimenti e quelli del popolo indiano“.

La mappa è scomparsa dopo pochi giorni ma senza scuse e a danno fatto. E se sei Twitter e giochi a colonizzare il mondo con i tuoi cinguettii allora ti conviene aprire un atlante e ripassare i capitolo sui confini. Quei confini che il professor Baldacci riteneva convenzionali, salvo poi magari vedere la sua amata Sassari riassegnata a Nizza e incazzarsi pure lui.

Uccellino, venga alla lavagna.

BISMILLAH MOHAMMADI

L’ex ministro della Difesa del molto poco difeso Afgnanistan risponde al nome di Bismillah Mohammadi ed è uno dei tanti, troppi che in questi giorni si è lanciato a tutte corde vocali nella mistica usignola del “Leone del Panjshir”. A dire il vero non è stato il solo ed è in ottima compagnia anche di quotatissimi analisti da tartina nostrani, però sulla testa inturbantata del caro Bismillah qualche aggravante seria orbita. Andiamo per gradi e spieghiamo chi sia il “Leone del Panjshir”, anche se di questi tempi a non saperlo sono solo gli istruttori di surf di Venice Beach. 

Alberto Sordi ne Il Marchese del Grillo

Trattasi di  Ahmad “Shah” Massoud, eroe tagiko (non afghano) dell’ostico nord che con la sua alleanza aveva già rotto il grugno ai talebani fra il 1999 ed il 2001, quando venne ucciso a due giorni dagli attentati dell’11 settembre da una falsa troupe tv di tunisini martiri imbottiti di esplosivo. In quell’occasione di guerra intestina Massoud aveva bissato, dato che negli anni ‘80 le sue fegatosissime truppe di montagna avevano strizzato le nespole perfino ai gruppi squadrone elicotteristi dei sovietici che invadevano il Paese. In quell’occasione Massoud era passato alla storia non solo per il valore delle sue truppe e per l’imprendibilità storica del territorio di cui era proconsole, ma anche per un accordo mai ufficializzato con gli Usa per tramite del deputato Charlie Wilson

Costui, un gaudente con più sale in zucca di tanti baciapile suoi omologhi, fornì all’alleanza del Nord bancali interi di missili terra-aria Stinger con cui fare il tiro alla beccaccia con i micidiali Mi 24 Hind russi, le cannoniere volanti che martoriavano i suoi. Orbene, Massoud ha un figlio, ha 32 anni, che ha studiato a Londra, si chiama paro paro come papà e come lui ha sangue bollente, truppe “no taleb” al seguito e fame di aiuti occidentali in armi e soldi. E il non più ministro della difesa afghano, il caro Bismillah Mohammadi, non ci ha messo molto a salire sul palchetto affollato di coloro che urlano che si, a Massoud jr va dato aiuto, denaro e piombo per spezzare le reni agli studenti delle madrasse, e qui il tizio mi cade. 

Mohammadi aveva fortemente criticato la scelta “savoiarda” del presidente Ghani di svignarsela, peraltro con una paccata di danè, giusto mentre i talebani entravano a Kabul. Lo ha spiegato bene in una intervista al Washington Post in cui chiosa laconico che pare un eroe omerico: “Ci hanno legato le mani dietro la schiena e hanno venduto la patria, vada al diavolo il ricco e la sua banda”. Tutto bello, se non fosse che dietro la biodegradabilità estrema dell’esercito regolare afghano, dissoltosi come una palla di neve nel microonde, c’è proprio lui. 

Le corruttele assortite, le scelte sbagliate di chiedere armamenti hi tech su cui gli afghani non avevano skill, il mancato addestramento in prontezza operativa per oltre due anni e con i talebani che già peppiavano ad est e la scelta di non inquadrare i valorosissimi e meno corruttibili battaglioni hasar, tagiki ed uzbeki nell’esercito (che l’hanno fatta pagare ai regolari afghani chiudendo il ponte di confine e mitragliando un aereo che portava fuggitivi) sono tutte perle del suo rosario nero. 

Un rosario che al collo del nostro sta appeso in perfetta equidistanza fra incompetenza e malafede. Una malafede che oggi  Mohammadi spera di sanare accreditandosi sulla stampa internazionale come quello che è rimasto fermo al suo posto nell’ora del pericolo, come il marchese Del Grillo che non vide i francesi entrare dal Papa perché impegnato a tanare la servetta che gli faceva le corna col ganzo.

Tolto quel “nell’ora del pericolo” è tutto vero: è restato fermo al suo posto, fermo, fermissimo. E immobile.

Onofrio col turbante.