Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP DE LUXE

DALE MC LAUGHAN

Capiamoci subito, qui la chiave di lettura è a tre: l’amore, la follia e il viaggio. Tre cose che di solito vanno a braccetto a rovinare la vita dei galantuomini, e qualche volta a rendere irresistibili le loro storie. Storie come quella di Dale Mc Laughlan, giovanottone dell’Ayrshire, nel sud della Scozia. Un tipo che si merita un buffetto per il rischio che ha corso e ha fatto correre, ma anche un serto per la cosa che quel rischio gli ha mosso. La buttiamo semplice, per step e fotogrammi. Lo storyboard ce lo dà la BBC.

Nel primo Dale si innamora di una ragazza dell’isola di Man dove lavora come stagionale. Nel secondo a Dale finisce il contratto e torna a terra col cuore spezzato. Terzo: Dale prende di ormone bandolero e fa per partire verso l’isola dove sta il suo amore. Nel quarto le restrizioni anti Covid lo bloccano, con tanto di polizia incazzosissima, sulla costa.

Nel quinto Dale non si arrende ed applica la regola aurea di Wilde: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Perciò, essendo egli matto come un cavallo pasturato a chetamina, ruba una moto d’acqua e si fa 25 miglia di mare bullo a temperature fra i due e i sette gradi.

Sesto step. Dopo 5 ore di acqua salata inghiottita e sputata, di rollii e di beccheggi, Dave approda sull’Isola e si fa a piedi 24 chilometri per raggiungere casa della sua bella. Nel settimo fotogramma egli la bacia.

Nell’ottavo lo arrestano. Ma egli è felice. E noi con lui.

Ulisse scansati.

TOP

MWAZULU DIYABANZA

Ci abbiamo pensato molto prima di dargli il Top, perché il metodo della sua battaglia è da Flop assoluto. Ma il merito, almeno in simbologia ‘merita’, perciò con il buonismo natalizio maggiorato ad incombere, azzardiamo.

Avete presente Robin Hood? Ecco, lui è un po’ il Robert di Locksley d’Africa, solo in salsa più artistica e identitaria. Mwazulu Diyabanza ruba, ruba ai musei stranieri per donare a quelli africani. In realtà ci prova perché è un grullo beat e finisce sempre in manette. Poi fa dirette Facebook seguite da centinaia di migliaia di persone e poi viene arrestato. Ma subito ricomincia, testardo come un tasso da miele del suo paese.

Mwazulu Diyabanza

E’ un panafricanista congolese che va dovunque ci siano da ristabilire dignità e giustizia per il Continente Nero. E dovunque vada fa parlare di sé. Diyabanza è anche sindacalista, attivista, scrittore e blogger. Ma alla storia ci passerà soprattutto perché dove c’è un museo che espone manufatti tribali o opere etniche, lì c’è lui che li ruba.

Perché a suo parere tutti quegli oggetti sono il frutto di razzie europee passate che hanno portato a traino verità distorte. E seppellito nefandezze insanabili. Come quando lo scorso 12 giugno è andato al museo Quai Branly a Parigi. A fare? Ovvio, a rubare alcune statue d’ebano delle dinastie Nguni risalenti a Nandi, madre del mitico re Chaka.

East African informa che «un recente rapporto commissionato da Emmanuel Macron ha rilevato che la Francia possiede circa 90mila oggetti provenienti dall’Africa subsahariana. Di essi più di due terzi sono al Quai Branly». Ecco, poteva il nostro Dyaba farsi scappare l’occasione? Ha radunato un manipolo fiero di attivisti e si è portato via un po’ di roba “della sua terra”.

Poi ha spiegato il suo gesto in diretta web. «E’ arrivata la polizia ma all’inizio non sapeva cosa fare. Perciò ci hanno interrogati. Dopo mezz’ora siamo stati ammanettati e presi in custodia. La sicurezza ha ripreso le statue e ora su di noi pendono accuse per tentato furto di opere d’arte. Ma non è finita lì e non finirà mai».

«Dopo l’arresto ho preso una spada maliana dal museo MAAOA di Marsiglia e una statua religiosa congolese dall’Afrika Museum di Berg en Dal, nei Paesi Bassi. Al Congo e all’Africa tutta sono stati tolti beni materiali, oggetti identitari e sorrisi, sorrisi portati via dai volti delle famiglie uccise dai colonialisti. Deve tornare tutto da noi, a casa, da Mama Africa».

Per la cronaca, nei circoli culturali sudafricani Diyabanza è soprannominato “calabrone”. Che in lingua nguni-bantu si dice Chaka. Come il re a cui ha voluto rendere giustizia.

Pungiglione della Storia.

ANDREW CUOMO

Gli tocca l’Emmy, cioè il più alto riconoscimento televisivo della nazione che mette la tivvù più in alto di tutto. E non è un attore, sia chiaro, anche se in quella sede gli attori non mancheranno. Ma se lui ha recitato un copione lo ha fatto talmente bene che ogni altro performer dovrà scansarsi.

Andrew Cuomo è il governatore di New York, cioè della città che forse più di tutte ha risentito degli effetti isterici della pandemia, oltre che di quelli sanitari. Una megalopoli in cui tensioni sociali, paura, attacco di Covid e bombe razziali innescate dal caso Floyd hanno creato nitroglicerina pura.

Andrew Cuomo

E fra le tante ma non troppe cose che hanno impedito alla Grande Mela di marcire nelle sue fobie ci sono stati proprio i briefing televisivi quotidiani di Cuomo sulla pandemia.

L’annuncio lo aveva già dato l’Academy of Television Arts & Sciences. Ora le date per l’edizione 2021 sono state perfezionate, con la cerimonia che non andrà più il 21 febbraio per paura della terza ondata, ma il 25 aprile. E la motivazione del riconoscimento a Cuomo non ha nulla della tronfia e a volte barocca nuance ‘ameregana’. Quella per cui ogni tot l’Emmy va a comunicatori da brodaglia maninstream.

Cuomo è stato scelto «per la sua leadership durante la pandemia Covid-19. Per l’uso magistrale che ha fatto della televisione nell’informare e calmare le persone in tutto il mondo».

Le strisce di Cuomo erano in palinsesto il lunedì, ne ha tenute 111. Bruce Paisner, presidente e CEO dell’Accademia Internazionale l’ha messa forse meglio di tutti, in termini di spiegazione. «Le persone in tutto il mondo si sono sintonizzate per scoprire cosa stava succedendo. E la New York dura descritta da Cuomo è diventata un simbolo della forza di reagire».

Molto ‘Sentieri Selvaggi’ ma efficace. Con 59 milioni di spettatori e un effetto a metà fra camomilla e zabaione, Cuomo ha dato grip e grinta ad una città che, sotto attacco del Covid, stava perdendo la sua identità. Ed ha incoraggiato soprattutto la parte anziana della popolazione, quella senza web che guarda il mondo ancora appesa alle labbra catodiche della tv.

Come Toti.

FLOP

SHEPERD BUSHIRI

Sapevate che in Africa c’è un pastore che dice di poter curare l’Aids con l’imposizione delle mani, la cecità con uno sguardo e la povertà con una carezza? Ora, anche a fare la tara al luogo comune di un Continente Nero ‘terra di stregoni’ la cosa è bizzarra. Lo è perché siamo nel 21mo secolo e perché lui, Sheperd Bushiri, non è un medicine man tradizionale, con bastone sacro, teschi come collana e sputo facile. No, lui veste Armani, guida una Bugatti Chiron e mangia bistecche di wagyu. Tutti elementi cioè che fanno di lui più un paraculo che un profeta incompreso.

Sheperd Bushiri

E un giudice del Sud Africa lo ha capito bene, tanto bene che, dopo aver disposto l’arresto del ‘profeta’ per riciclaggio di denaro, furto e frode, ha dovuto ingoiare un rospo. Bushiri infatti era stato scarcerato dalla prigione del Malawi dove l’ordinanza internazionale lo aveva raggiunto. Facciamo chiarezza: Malawi e Sud Africa sono due stati diversi con due legislazioni diverse.

Bushiri avrebbe ‘fatto impicci’ in Sud Africa e per rogatoria è finito dentro in Malawi, lo stato di cui è cittadino. Ma un giudice del Malawi, Viva Nyimba, ha stabilito che l’arresto del santone è illegale e lo ha rimesso sul sedile della sua supercar. Ora il Sud Africa reclama l’estradizione per processare Bushiri esattamente in questi giorni, ma il Malawi traccheggia.

Il che ha messo le due nazioni su un ring molto ma molto ruvido. Al Jazeera e The African fanno luce sulla faccenda. Perché Bushiri è così protetto? Alla fin fine è solo un furbo di tre cotte che ha messo in cattiva luce anche il suo Paese. Cioè una specie di Vanna Marchi equatoriale, che strilla magari di meno ma ha la stessa cazzimma circense. Le due testate hanno una spiegazione, ed è spiegazione figlia di una inchiesta certosina.

Il presidente Lazarus Chakwera

Non è peccato non sapere chi sia il presidente del Malawi e quindi ve lo diciamo noi: Lazarus Chakwera. E’ stato eletto a furor di popolo lo scorso giugno ed è considerato uno dei leader più progressisti, democratici ed aperti d’Africa. Tanto prog che tutti i Paesi occidentali avevano salutato la sua elezione come un puro bagno di democrazia anti oscurantista. Tutto bene dunque, se non fosse che in giro c’è un dossier che testimonierebbe come il ‘civilissimo’ presidente abbia commissionato dei riti propiziatori per la vittoria d’urna ad un famoso ‘uomo sacro’.

Uomo sacro la cui identità a questo punto è facile facile facile da scoprire. E’ un pastore con il nome di un pastore, guida una Bugatti e veste Armani. E tiene per i cosiddetti il suo governo, al punto da innescare un incidente diplomatico con un Paese che con il Malawi ci puo’ fare colazione al mattino.

Più che pastore, volpino.

L’INDIA

Li stanno cacciando, senza appello e dalla loro terra, sotto gli occhi di un mondo che non ha tempo di sbirciare ai suoi angoli. Sono i Bakarwals, una sotto-tribù nomade del Kashmir finita in tacca di mira del governo indiano. Perché da quelle parti il match è fra India e Pakistan, che litigano per il controllo della regione. E non disdegnano trucchetti da tragicomica per accaparrarsi fette di terra. Come è accaduto a luglio del 2019. Quando cioè l’Alta Corte di Jammu e Kashmir aveva ordinato al governo di eliminare il problema delle «invasioni di terreni demaniali» e Soluzione Finale riaffacciati potente.

Ecco, gli “invasori” sono loro, pastori di cavalli e capre che fanno la spola nelle valli montuose ai piedi dell’Himalaya.

Foto Sankar Sridhar

Ma poi perché devono andar via? Semplice e tremendo: i Bakarwals sono musulmani. Tuttavia non sono seguaci ortodossi dell’Islam. Pregano guardando ad ovest (per loro la Mecca sta ad ovest) ma hanno preoccupazioni e nicchie etiche più basiche: allevare bestie, educare figli alla vita mandriana, fare formaggio e lottare contro una natura gigantessa. Insomma, non li rompono e non vogliono che a loro siano rotti.

Sarebbe perfetto, ma il partito nazionalista di estrema destra indù, il Bharatiya Janata Party (BJP), non la pensa così.

Nel tentativo di sloggiare ogni focolaio islamico da una terra che New Dheli rivendica come sua e induista, l’unica è scacciare a colpi di manganello chiunque abbia un corano sotto il cuscino. E siccome molti dei terreni che i Bakarwals usano per transumare da valle a valle sono parte dello sterminato demanio di una provincia indiana, l’India gioca a fare la sbirra.

La BBC ci informa che in questi giorni prima delle bastonate sono arrivate le ruspe. Servono per abbattere le casupole di fango che i nomadi erigono per i due o tre giorni di foraggiamento dei loro piccoli cavalli di ceppo mongolo.

Tutto con una sentenza in punta di randello: i Bakarwals sono colpevoli. Di cosa? Di aver occupato illegalmente terra non loro, cioè terra che è terra loro da millemila anni prima di ogni indiano dal Punjab al Tamil. Ecco un frame dell’atto: «64.000 persone hanno occupato illegalmente 17.704 ettari (43.749 acri) di terreno forestale».

Delle due l’una quindi: o i Bakarwals per spostarsi devono salire in quota, dove non c’è demanio ma il freddo uccide, o devono spostarsi a valle, dove fa meno freddo ma si prendono le legnate sulla zucca. Un budello esistenziale talmente vecchio e trito che, solo per un attimo, sembra quasi normale. Solo per un attimo però.

India celerina.