Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

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JOHN COATES

Essere vicepresidente del Comitato Olimpico Internazionale nel clou della pandemia dev’essere stata durissima per lui. Lui che è australiano, ex giocatore di cricket ed abituato alle soluzioni spicce. Eppure pochi mesi fa aveva dovuto rinfoderare grinta ed entusiasmo, per annunciare che i Giochi Olimpici di Tokyo andavano rimandati. Una macchina organizzativa da miliardi di dollari, con 11mila atleti e 200 paesi in ballo, che aveva dovuto soccombere al dilagare di Covid. Macchina monstre il cui grippaggio era costato l’ennesima ulcera e le dimissioni al premier giapponese Abe.

JOHN COATES

Era bastato un breve consulto con Toshiro Muto, Amministratore delegato di Tokyo 2020, per fare una cosa che da quando esistono le olimpiadi moderne non era mai accaduta. E cioè sospendere i giochi, che in precedenza erano stati annullati solo a causa delle guerre mondiali, a Berlino nel 1916 e, ops, a Tokyo nel ‘40.

La faccenda i due se l’erano palleggiata ‘in casa’. Questo perché lui, John Coates, è anche presidente della commissione che coordina l’olimpiade nipponica. Poi, due settimane fa, l’annuncio, roboante e carico di sollievo, come si conviene alle cose mondiali che riprendono passo canonico.

Che cioè i giochi olimpici di Tokyo cominceranno il 23 luglio del 2021, «con o senza Covid». Roba dura, comunicazione spiccia e alla Crocodile Dundee. Roba che fa onore al carattere di un uomo che nel carosello dei cinque cerchi è una leggenda vivente. Nei giorni a seguire però erano emerse le perplessità della stampa mondiale incarnate tutte da un dubbio. Quale? Se la certezza che le olimpiadi del 2021 ci sarebbero state fosse subordinata alla prima inoculazione a livello planetario di un eventuale vaccino. Coates, che è animale da palcoscenico più di quanto non faccia intuire la sua stazza da tagliaboschi, ci è andato giù secco.

Secco e con una magniloquenza sbruffona che è piaciuta a prescindere dal valore empirico di ciò che ha detto. E dal fatto che Covid non molla la presa sul mondo.

Ha mitragliato la sua visione della faccenda ai microfoni di BBC Australia: «La chiameremo l’Olimpiade che ha battuto Covid. E se qualche scienziato non dovesse aiutarci a farla diventare tale allora farà meglio a prepararsi a correre i 110 a ostacoli».

Cinque palle.

STARS AND STRIPES

«Gli Stati Uniti d’America non taglieranno i finanziamenti alla rivista @starsandstripes con me presidente. Continuerà ad essere una meravigliosa fonte di informazioni per il nostro grande esercito. La faccenda è serissima, e il fatto che qualche giorno fa Donald Trump ci abbia tweettato sopra lo conferma. Perché Trump tweetta come uno stormo di cardellini, ma lo fa sempre quando deve rimediare a qualche danno fatto da lui. E siccome di cappellate ne prende tante, ecco spiegato il cinguettio seriale del presidente.

Donald Trump

Premessa storica veloce veloce.Stars and Stripes è storia americana pura. Parliamo della rivista militare ufficiale degli Stati Uniti, nata nel 1861. E da allora alma mater di tutti gli inviati di guerra americani in tutte le guerre a trazione americana. È il quotidiano più letto da tutti gli uomini in divisa al di là dell’Atlantico. Ha dato conforto ed info alle truppe su tutti i fronti del pianeta. Dalla Guerra Civile ai Marines incursori di Tangeri. Dai due conflitti mondiali fino al Vietnam e alle war-mission in Iraq-Afghanistan.

Insomma, è un’istituzione. Istituzione che rischiava di chiudere a causa di un taglio del budget da 15,5 milioni di dollari. Lo aveva operato il Pentagono, che di SAS è l’editor tramite il gancio del Dipartimento della Difesa. USDOD che ha fatto una retromarcia clamorosa e ardita in queste ore, annunciando di aver revocato l’ordine di chiusura del giornale.

Una faccenda alla Rugantino e Mastro Titta, per capirci. Dove a tirar via la testa del condannato da sotto la mannaia del boia è stato il tweet di Trump che, di fatto, si è schierato dalla parte dell’editoria con le stellette.

E viene facile intuire perché. Un mese fa Mr President era finito al centro di una bufera mediatica. Che aveva combinato? Nulla di che a ben vedere. Aveva solo dato degli «sfigati» a tutti i soldati morti in guerra per gli Usa. E si era inimicato buona parte di un Paese per cui patriottismo kaki e feticismo del binomio fucile-libertà sono come la Sindone. Un paese dove il Cimitero degli Eroi di Alrington è più visitato del Lincoln Memorial.

Trump però è come i kentukiani a cui chiederà il voto fra un mese. Gente tosta che prima ti legna e poi ti porta in taverna a sfasciarti il fegato. E ha rimediato con l’endorsement (in italiano ruffianata) che ha salvato un pezzo di storia editoriale del pianeta. Sulle cui pagine sono comparse immagini e fatti che vanno dai dagherrotipi del generale Grant alle foto di Miss Cheescake 1957. Chi? Una giovanissima Norma Jeane Dougherty che ancora non sapeva di essere Marylin.

Salvate il soldato Donald.

FLOP

CHRIS WALLACE

Non ce l’ha fatta, e prima ancora di Joe Biden è caduto nel trappolone di Donald Trump. Che nel dibattito fra candidati alla Casa Bianca ha dosato i due ingredienti principe delle attuali tenzoni da arruffapopolo: buttarla in caciara e usare Covid. Perché per Trump Covid doveva essere budello di debacle, e invece il presidente in carica lo ha trasformato in ascensore di merito. Come ha fatto? Mettendo il piedone nella porta della goffaggine di Joe Biden. E correndo sul tappeto dell’ostilità molecolare di Chris Wallace.

CHRIS WALLACE

Già, perché l’anchorman di Fox News chiamato a moderare il duello di Cleveland aveva una mission a cui è venuto meno. Poco ma quanto basta. Quella di non apparire uomo di punta di una televisione che Trump ha scaricato da tempo.

Se la Fox News di Roger Ailes e Rupert Murdoch era infatti nata come storica ugola ufficiale di Trump, la Fox attuale è orfana di un presidente che l’aveva ricusata in favore di una tv massimalista di destra. E che non ha mai perdonato al network repubblicano per eccellenza certe sue eleganze bi-partizan. Lui i media li vuole vaccari e schierati: nemici irriducibili o amici veri.

E Wallace ha patito questo preambolo, infilandosi nel dibattito non con la flemma del moderatore, ma a tratti con la tigna della parte in causa. Cosa che Trump ha intuito benissimo, lasciandosi scappare un sardonico «sembra quasi che lo stia facendo con te, il dibattito». E segnando due punti: il primo, per aver fatto emergere la natura un po’ ‘mollusca’ del suo avversario, relegato in un cantuccio quasi come un ascoltatore di strada. Il secondo, per aver dato ad intendere, cosa falsissima, che Wallace fosse imparziale fuori ma non obiettivo dentro. E invece Wallace è solo aggressivo e legnoso, figlioccio di Walter Cronkite e figlio dello sbrana polpacci Mike. Ma è anche un furbone di tre cotte bravo a smarcarsi dalla sua indole bufala. Però non stavolta.

Da lì a tracimare poi sui punti caldi di Corte Suprema, riforma sanitaria, Covid, rivolte razziali e tutto il cucuzzaro è stato un attimo. E forte della debolezza di chi lo fronteggiava e di chi lo controllava, Trump ha messo la quarta sull’autostrada del becerume. Ed ha disegnato il duello elettorale più brutto e cafone dai tempi del Kennedy Vs Nixon nel ‘60, il primo a trazione catodica. Quando cioè la capacità argomentativa migliore del repubblicano, ottimizzata in radio, dovette soccombere al piacionismo televisivo del senatore dem irlandese.

Però il moderatore di allora, Howard K. Smith, già in lista nera dell’anticomunismo, si guardò bene dal controcazziare l’antipaticissimo Nixon. Wallace invece è caduto nel trappolone e si è dato a metter sugo dove avrebbe dovuto mettere ordine.

Ko dell’arbitro.

DISNEY-PIXAR

Da simbolo dell’affrancamento femminile a totem di pulizia etnica è un attimo. Fatta la tara ad un mondo dove ormai gli equilibri per non scontentare qualcuno sono più pelosi dello yeti, il problema qui c’è tutto. E non riguarda certamente lei, Mulan, l’eroina guerriera cinese che veste l’armatura, impugna il dao e smazza tutti gli invasori possibili. Salvando tra l’altro uno degli imperatori più gonzi dell’austera filmografia sino-hollywoodiana. Da cosa? Da morte spezzatina ad opera del tamarro nomade di turno in black dress, ovvio.

I personaggi Pixar

Il problema semmai riguarda Disney-Pixar, accusata di aver proseguito un trend antico per cui nelle sue opere o c’è cripto robina o robaccia politicamente non correttissima.

A distanza di un mese dall’uscita del film si è scoperto che la colpa è del contratto. Una scrittura blindata sui set esterni con il governo cinese che faceva obbligo di far scorrere una precisa slide nei titoli di coda. Cioè il ringraziamento al «Comitato della Regione Autonoma Uigura del Partito Comunista Cinese dello Xinjiang».

E lì apriti cielo. Perché associare il Partito Comunista Cinese e il governo di Pechino alla minoranza uigura, per un uiguro è come accostare Satana al tabernacolo. E torto torto ‘sti qui non ce l’hanno.

Secondo BBC, che mutua i suoi dati dall’Onu, più di 1 milione di uiguri è detenuto nei campi di concentramento nella regione dello Xinjiang. Ma chi sono gli uiguri? Una minoranza cinese di religione musulmana che nel paese del laicismo integrale è vista come un nido piattole da schiacciare, senza tanti fronzoli dem. I cinesi li chiamano “campi di rieducazione per separatisti”, ma sono lager fatti e finiti.

Lager che testimoniano quella che la Commissione Esecutiva del Congresso degli Stati Uniti sulla Cina descrive come «la più grande incarcerazione di massa di una minoranza nel mondo». Sulla scorta di quello sconcio su Twitter è attivo da qualche mese l’account “Boycott Mulan”. E il fatto che la Disney abbia accettato quella slide per esigenze di copione non è gradevolissimo.

Questo quando per riprodurre la steppa sino mongolica della sceneggiatura bastava andare in Spagna o a Castelluccio di Norcia come faceva Sergio Leone. O in un qualunque altro posto del mondo. Un posto dove non ci fosse un milione di persone chiuso dietro una rete perché prega il suo dio.

Mulanen.

MENZIONE SPECIALE

AMY CONEY BARRET

Donald Trump l’ha scelta come membro del più altro organo giurisdizionale d’America, la Corte Suprema. E lei è diventata il giudice numero 115 dell’elite togata degli States. Il suo avvicendamento ha toni epocali perché viaggia su due binari. Il primo è quello emotivo. Perché Amy Coney Barret è stata chiamata a sostituire la scomparsa Ruth Bader Ginsburg, un’icona della cultura liberal e una pioniera delle lotte per la parità di genere. Il secondo è più politico e muscolare. Perché l’ex giudice della Corte di Appello di Chicago rappresenta al tempo stesso la continuità e la rottura con colei che la precedeva.

Amy Coney-Barrett

Continuità perché è donna. Rottura assoluta perché la Barret è donna agli antipodi della cultura liberal della donna che andrà a surrogare. E’ antiabortista, cattolica e rappresenta una certa America mammeggiante e di salmo facile. Quella che fa tanti figli e mette ordine ortodosso in casa, oltre che negli affari pubblici. Tutte faccende che potrebbero non essere considerate necessariamente dei pregi. Specie a voler contare il taglio trinariciuto con cui quelle ‘doti’ si sostanziano nella giudice Barret.

Tuttavia la signora ha un merito che prescinde dal merito di ciò che è. E’ creatura trumpiana al 100% in un momento cruciale per il trumpismo. E il presidente l’ha scelta proprio per questo. Perché la costituzione Usa dice che i giudici della Suprema li sceglie il boss, ma li certifica il Senato. E il Senato è a maggioranza repubblicana, mentre alla Camera i dem spadroneggiano, in questo caso invano. Poi perché la Corte Suprema è appellabile per le Udicial review. Cioè decide se le leggi approvate dal Parlamento siano in linea con la Costituzione. Come la nostra Consulta ma con un potere più ‘heavy’. E con nove giudici che, salvo impeachement, durano in carica a vita.

Con la Barret il candidato Trump si è giocato la matta finale del controllo legislativo. Lo ha fatto a discapito dei voti delle donne bianche, non religiose o credenti soft delle periferie. Loro al presidente contestano misoginia e ostilità all’aborto che in quegli slum è spesso rifugio per non incrementare la povertà. Se Trump abbia fatto la mossa giusta è da vedere. Intanto Your Honor Barret si gode lo scranno più alto e i 255.300 dollari annui di stipendio. Più gli alleluiah del gruppo a cui aderì qualche anno fa, quello delle “Ancelle cristiane”.

E datemi un amen.