Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

ALAN JOPE

Alan Jope è il Ceo di Unilever. E Unilever è un colosso anglo olandese da 60 miliardi di dollari che può permettersi gesti immensi. Come decidere per esempio di non mettere più le pubblicità delle centinaia di marchi che controlla su Facebook, Instagram e Twitter. E di farlo perché in particolare le creature di Mark Zuckerberg non adotterebbero una politica decisa contro il razzismo.

ALAN JOPE

Ora, a dirsela tutta, se sei il caciottaro della valle e se snobbi FB per motivi etici sei eroe vero. Se sei Unilever e pubblicizzi la tua scelta etica incassando un ritorno di immagine più grande delle perdite sei altro. Sei un genio fatto e finito prima ancora di essere un boy scout dentro.

Però la polpa resta. Anche perché rinunciare alle piattaforme media di Zuckerberg comunque non è una bazzecola, neanche per le aziende-kraken come quella guidata da Jope.

Il boicottaggio è stato motivato con toni franchi e spicci. «Continuare a fare pubblicità su queste piattaforme in questo momento non aggiungerebbe valore alle persone e alla società. Bisognava fare molto di più nel censurare messaggi di odio e nel polarizzare l’attenzione politica su quanto accaduto negli Stati Uniti».

Ergo, le valanghe di danè messe in bilancio per le pubblicità andranno in pronto cassa su altre piattaforme. Due piccoli particolari. Pochi anni fa e prima dell’arrivo di Jope uno dei marchi di punta di Unilever, Dove, finì in gogna mediatica per una pubblicità. Nello spot una modella nera veniva ‘sbiancata’.

Particolare due. L’elenco dei marchi sotto ombrello societario di Unilever assomiglia in maniera preoccupante all’elenco telefonico di New York. Come a dire che aver preso una cantonata ieri su una singola nota ti porta a metterti l’aureola oggi su tutta la sinfonia.

Morale fruttuosa.

METTE FREDERIKSEN

E sono tre. Tre volte che prova a sposarsi, tre volte che la sorte ci mette lo zampino, tre volte che lei non demorde e fissa un’altra data. Una data per i fiori d’arancio più tardivi della storia, quelli che dopo i fiori sono finiti ormai a frutta e spremuta. E che proprio non riescono a spandere profumo sulle teste di Mette Frederiksen e del suo promesso sposo, Bo Tengberg. Quest’ultimo, il miracolato, è un cineasta scandinavo, mentre lei, quella che il miracolo lo attende da un anno e passa ormai, è la premier danese.

Mette Frederiksen Foto © News Oresund

Ecco il suo calvario prenuziale in pillole. La scorsa primavera Mette onora il suo nome e mette in cantiere le nozze col moroso. Il premier liberale di allora, Rasmussen, indice però le elezioni. La Frederiksen abbozza e rinvia le nozze per concentrarsi sulla campagna elettorale. E vince, diventando primo ministro il 5 giugno.

Il risultato? Per farla acclimatare con il fardello del potere nozze rinviate al 2020, considerato anno propizio. In che misura sia stato propizio il 2020 lo sappiamo tutti. Arriva la pandemia e le nozze già rinviate nel 2019 vengono ovviamente congelate da Covid. La coppia ingoia la bile, si arma di pazienza e sposta il matrimonio al prossimo 18 luglio.

Dall’otto giugno infatti in Danimarca è di nuovo possibile bisbocciare con oltre 50 persone, purché la caciara finisca a mezzanotte. Tutto è pronto e stavolta, la terza, pare essere davvero quella buona, con inviti spediti, paccottiglia lucidata e sciampagna messa in freddo. Non è così. L’ennesimo rinvio stavolta assume le fattezze bonaccione e scritturali del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Proprio il 18 luglio costui ha deciso di convocare i 27 leader europei. Per fare? Per discutere il piano di 750 miliardi di euro di aiuti proposto dalla Commissione. Con un incentivo in più che si è fatto ganascia per il tormentato sogno nuziale di Mette.

Quello in cantiere per il 18 infatti è il primo summit in assoluto che vedrà capi di stato e di governo incontrarsi ‘live’. In precedenza c’erano state solo 5 videoconferenze. Ergo, più che mai mancare non si puo’. La premier danese, che è donna di tigna assoluta, ha giurato che ci riproverà e pare abbia fissato un’altra data, per ora tenuta più segreta dei fatti di Dallas. Ma lei non demorde perché è innamorata. Perciò in attesa di infilare la fede al dito porta in petto la fede in un futuro senza altri intoppi.

Ragion di Stato ti odio.

FLOP

LA CINA

A stanarli ci ha pensato la solita, micidiale catena di diffusione delle grandi news internazionali. Un satellite spia che scatta foto, un attaché d’ambasciata volutamente loquace e un reporter ammanicato. Tre step secchi et voilà, le manovre dell’esercito cinese lungo il rovente confine con l’India sono belle che servite.

L’antefatto è noto: i due paesi si contendono da tempo le migliaia di chilometri di confine nella zona himalayana. Tanto che un accordo unico nel suo genere aveva vietato che le border troops di entrambi avessero armi al seguito.

Troppo alto il rischio che la cosa finisse male e, se le cose precipitano fra i due maggiori colossi nucleari d’oriente, precipitano nel pianeta.

Ma quella regola che voleva incentivare il pacifismo coatto dei soldati non aveva funzionato. E il 15 giugno scorso le rispettive formazioni si erano legnate a mani nude come ossesse. Tanto e con tale dispiego di armi non convenzionali – mazze chiodate e bastoni bendati col fil di ferro – che ci erano scappati 20 morti indiani e non si sa quanti cinesi. Per qualche ora si era temuta una escalation fatale. Escalation che non c’era stata perché entrambi i paesi, al di là di chi avesse cominciato, si erano accordati per abbassare unilateralmente i toni.

E giurin giuretta avevano promesso di tenere a bada mazzieri e soldaltaglie sciolte, oltre che di evitare attività e sfacciataggini logistiche che fomentassero un nuovo focolaio di violenza. Tuttavia la Cina pare aver dimenticato il patto con la stessa velocità con cui si cassa un foruncolo. Un satellite militare Polyus III aveva fotografato nuove installazioni cinesi proprio nella valle di Galwan che aveva ospitato la mattanza. E davanti ad esse decine di fanti che si addestravano nella variante shaolinquan del kung fu.

E l’India poche ore fa ha risposto spedendo in zona il Garud, le sue special forces da montagna inquadrate nell’Aviazione, gente non proprio armata di fionde e bastoni. Roba fresca, che prima non c’era. Roba che ha raggiunto prima Reuters e poi Al Jazeera. E ha fatto tana alle dita incrociate dietro la schiena di Pechino, che ormai giura troppo e mantiene pochissimo.

Pinocchio alla cantonese.

L’INDIA

Se è vero che nelle faccende di confine la storia assegna torti e ragioni in maniera ambigua, allora l’India è anch’essa un po’ vittima, un po’ carnefice. E la carneficina è quella che riguarda il Kashmir, dove le truppe di New Delhi sparano e ammazzano come se non vi fosse un domani. Solo negli ultimi giorni sono state uccise 38 persone. Fra di esse un bimbo di 6 anni, incappato nel piombo orbo che ammazza tutti i bambini in tutte le guerre: cioè nel fuoco incrociato delle fazioni.

IL PRESIDENTE MODI. FOTO © CASA ROSADA

Il Kashmir è di fatto spartito in tre. E amministrato, cioè controllato militarmente, dai ‘master’ d’oriente. La Cina, che rivendica una sua enclave, l’India, che rivendica le origini induiste della zona e il Pakistan, che non vuole cedere terreno musulmano né all’induismo né al socialismo aziendale cinese.

Tre paesi tre, tutti potenze nucleari mondiali con tre miliardi di persone in scacchiera geopolitica. Un casino. Casino a cui pagano pegno le popolazioni locali che, a ben vedere, pregano Allah, la Trimurti o il santino di Mao. Ma pregano soprattutto che il piombo fischiante sloggi dai loro villaggi, e dalla carne dei loro figli. La più aggressiva in questa lotta a morsi per la terra della lana pregiata è proprio l’India.

L’agenzia AFP la spiega bene. «Da quando a fine marzo è stato imposto il blocco a livello nazionale per il Covid, Nuova Delhi ha intensificato le operazioni militari contro i ribelli nel Kashmir. Il tutto con almeno 33 combattenti separatisti uccisi questo mese». E i Para (senza accento) delle Forze di Sicurezza indiane sparano come ossessi, spalleggiati da gruppi di paramilitari addestrati nei terrificanti combat-fields delle divisioni Punjiabi. Al Jazeera informa che «il bambino era su un’auto finita in mezzo ad una battaglia tra sospetti ribelli e paramilitari vicino alla città di Bijbehara».

New Delhi ha negato ogni responsabilità e poche ore fa ha comunicato di voler revocare lo statuto speciale alla fetta di Kashmir sotto il suo controllo. Una stretta di mordacchia clamorosa con i corpi dei ‘ribelli’, bambino incluso, che non sono stati restituiti ai familiari. Li hanno seppelliti in un luogo segreto. Con una scusa-bufala clamorosa: «Per evitare assembramenti funebri e contagi Covid».

Vacca sacra, vita no.