Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

MOHAMED MASHALLY

Quando lo aveva scoperto era rimasto folgorato e si era sentito piccolo piccolo. Tanto piccolo da imporsi la grandezza militante di chi mette in agenda etica solo e soltanto gli ultimi. Mohamed Mashally, giovane medico egiziano fresco di laurea, nel 1967 aveva incassato il massimo dei voti accademici. E col serto ancora fresco in fronte aveva saputo che dietro quegli studi onorevolissimi c’erano gli sforzi immani di suo padre. Sforzi di cui aveva ovviamente contezza generica, ma non al punto da immaginare che il genitore si fosse indebitato fino al collo per farlo diventare dottore.

IL DOTTOR MOHAMED MASHALLY

Ed era stato a quel punto che Mohamed aveva fatto una promessa a se stesso: alla sua vita avrebbero fatto luce solo Ippocrate e san Francesco, in senso simbolico ma radicale, vivo, fortissimo. E bello. Bello al punto da trasformare un giovane medico pieno di speranze in un maturo dottore spinto da una certezza: aiutare i poveri, aiutarli davvero. Per diventare testimone di come l’amore sia davvero il motore del mondo, quello ricevuto e quello che si è felici di restituire avendolo ricevuto. Fino al punto di evitare di farsi pagare quando i suoi pazienti portavano impresso negli occhi il marchio mesto dell’indigenza.

Ma a lui non bastava: Mohamed dava alla bontà un’accezione militante ed attiva. Figlia cioè non solo dell’elusione dell’onorario, ma anche madre della carità. Detta più facile e molto più bella, il medico non si limitava a prescrivere le medicine ai suoi pazienti, ma glie le pagava anche. Accadeva quando capiva che sotto quegli abiti, oltre alla malattia, ci abitava anche il male peggiore di tutti: la povertà.

Nella sua clinica scalcagnata il dottore accoglieva tutti, prendeva un onorario medio inferiore ad un dollaro e raggiungeva i suoi pazienti a piedi. Il suo incedere via via sempre più lento man mano che la tirannide del tempo gli mordeva i polpacci era diventato una costante scenografica. Una figura fissa che scandiva i passi così come il calendario scandiva gli anni. Fino a regalargliene 80, per mettere la sua vita al servizio di un’idea più grande di ogni lucro.

C’era stato un attimo fugace in cui il dottor Mohamed avrebbe potuto poggiare le stanchissime ossa su un’auto. Glie l’aveva regalata un riccone locale che il giorno dopo aveva contattato i media per fare scialo mainstream del suo gesto. Ma ci era rimasto di sasso, perché i cronisti inviati a casa del dottore erano tornati con una notizia che al riccone segava ogni velleità pubblicistica. Il dottore aveva venduto l’auto e con il ricavato aveva comprato attrezzature diagnostiche. Attrezzature con cui, in tolleranza ecumenica, dava diagnosi a tutti, musulmani, cristiani copti di ceppo etiope del culto di Debra Mariam e perfino ortodossi slavi al seguito delle truppe russe, che in Egitto non mancano mai.

Perché le missioni vere hanno un solo credo: prendersi cura dell’uomo, comunque egli declini nome e senso di dio. Il dottor Mohamed è morto ieri, come muoiono tutti dopo vite più o meno interessanti o banali. E’ morto come dovrebbero morire tutti gli uomini che aspirano alla grandezza vera: trovandola cioè nell’esatto momento in cui non l’hanno cercata.

Ciao doc, e grazie.

NYDIA VELASQUEZ

Qui, tanto per cambiare, c’entra Donald Trump. Un Trump in versione mercatale che qualche tempo fa si era ritrovato sul groppone una grana grossa: Puerto Rico. Antefatto: nel 2017 l’uragano Maria si abbatte su una robusta fetta degli Stati Uniti e manda in pezzi il piccolo commonwealth caraibico.

Bignamino speed: l’isola ha lo status giuridico di Territorio non incorporato degli Stati Uniti. È uno stato federale sotto cappello dello Zio Sam a tutti gli effetti, ma con alcuni distinguo pelosi. Non vota alle presidenziali, ma i suoi cittadini pagano le tasse agli States e fanno il servizio militare per Washington.

Nydia Velazquez. Foto Courtesy of Nydia Velázquez

Sta di fatto che l’uragano aveva innescato una serie di richieste di aiuto da parte del governatorato locale che erano diventate miccia per un braccio di ferro surreale.

Fra chi? Fra Trump, che voleva smettere di inviare soldi ad un governo locale da lui definito «spendaccione e corrotto» e un popolo incastrato da antiche scelte e referendum del 2012. Popolo che aveva barattato la sua identità precolombiana con la sicurezza di essere sotto le ali dell’aquila americana. Quel «tacchino spennato» – come la chiamava Teddy Roosvelt – sotto cui come è noto ‘Tutto prospera’. O quasi.

A quel punto, si era a fine 2019, Trump se ne era uscito con una delle sue perle ed aveva rivelato la sua personale soluzione.

A chi? Ad Elaine Duke, ex Segretario per la Sicurezza. Quale? Vendere Puerto Rico al primo acquirente e togliersi l’ingombro di uno stato “inutile”. Una scheggia scialona che lui vedeva come un cugino burino sempre a caccia di paghetta.

La questione era più seria. Trump doveva rispondere alle istanze degli americani Wasp (Withe, Anglo Saxon and Protestants) della East Coast che avevano fatto anch’essi i conti con la furia dell’uragano. E loro si, votano. E che da bravi suprematisti soft chiedevano che i fondi arrivassero prima in continente e poi sulle isole annesse.

In questi giorni la ciliegina sulla torta del presidente con la zazzera arancione è stata ‘sgamata’ dal New York Times, che sul pezzo ci sta da sempre. E agli inquilini repubblicani della Casa Bianca non glie ne manda buona una. Trump avrebbe buffoneggiato sulla possibilità di «scambiare Puerto Rico con la Groenlandia». Beccandosi la risposta al fulmicotone della deputata democratica locale Nydia Velázquez. «Puoi svendere il tuo ruolo, la tua integrità personale e la tua anima, signor Presidente. Ma ti assicuro che Puerto Rico non è in vendita».

Puerto Fico.

ABDALLA HAMDOK

No, proprio non ci viene di dire meglio tardi che mai. Però che alla fine sia successo è roba grossa, roba che fa sperare. Che il Sudan cioè abbia finalmente reso le mutilazioni genitali femminili un reato è faccenda di sollievo e speranza. A ché altri paesi dell’area afro-islamica si accodino. Ed altre sterzate legislative seguano nei mille anfratti bui in cui è ancora smembrata la condizione femminile in troppe parti del mondo.

IL PRIMO MINISTRO ABDALLA HAMDOK

Anche stavolta a fare la storia ci ha pensato una sentenza, ma a darle polpa ci ha pensato un uomo.

Fino a pochi giorni fa in Sudan recidere il clitoride di una ragazzina era pratica legale e diffusa. A sanare lo sconcio ci ha pensato il Consiglio Supremo, che in giudicato ha definito la pratica dell’escissione una «minaccia alla dignità della donna». E che ha consegnato al ministero della Giustizia del Paese africano una bozza input affinché, per parte politica, quel pronunciamento diventi disegno di legge.

Perché adesso che l’etica ha ripreso il sopravvento e la giurisprudenza enunciativa ha fissato i paletti, serve che la legge a quei paletti attacchi il cartello di divieto.

Nella bozza inviata al ministero si contemplano 3 anni di carcere. Verranno comminati a chiunque: padre, zio, prete o fratello, solo si azzardi ad impugnare una forbicina da cucito o un rasoio con l’intento alieno di sedare la dignità di una donna passando per il suo sesso.

E qui entra in gioco uno che, di come sia facile cambiare le regole ma difficile cambiare le persone, si è dimostrato un vero esperto. Abdalla Hamdok è il primo ministro del Sudan. E’ figlio della transizione dalla fase militare e caotica a quella che ha messo la democrazia in cima al libro dei sogni. E’ un economista che ha sposato una collega ed ha lavorato all’Onu. Insomma, era il tipo giusto per fare quello che ha fatto.

Stilare cioè una mappa aggiornata dei piccoli villaggi che costituiscono la più parte del tessuto sociale del Sudan. E, stanziando fondi ad hoc, inviare lì dei funzionari.

Spiegheranno soprattutto ai marabut, ai capi religiosi ed agli anziani che ora c’è una nuova regola che va rispettata. E che le 13enni sotto il loro controllo ora sono persone da onorare e non comparse esistenziali da marchiare in mistica splatter. Perché per cambiare veramente le regole, dopo la velocità della legge serve la pazienza della cultura. Altrimenti crescerà solo il numero di coloro che, fondano su una cultura più forte, quella legge la violeranno.

Saggio sul seggio.

FLOP

JEAN CASTEX

Qualcuno dice che sia coriaceo come i giganteschi cani da pastore bianchi dei Pirenei dove è stato sindaco per anni, cani abituati da secoli a vedersela coi lupi. Qualcun altro, più prosaico, sostiene semplicemente come lui, Jean Castex, sia solo un ultra conservatore perfetto per il ruolo di uomo ombra di Emmanuel Macron.

Nelle prime settimane da che la Francia ha un nuovo Primo ministro sono emersi tutti i tratti di un avvicendamento politico che ha due facce.

La prima è quella formale per cui oltralpe il premier è figura assolutamente secondaria, perché sottomessa nel potere esecutivo all’Eliseo. In tutto e per tutto. La seconda, più sottile, è quella per cui se c’è una mission che si richiede a chi si insedia a ‘Matignon’ quella è proprio lo zerbinaggio politico a chi lo ha nominato. Cioè a Monsieur le President.

E Macron, che nel 2022 ha il voto e che dal ginepraio Recovery Fund è uscito col serto in testa, sa benissimo una cosa. Che mai come ora più che un pastore da difesa gli serve un bracco da riporto.

Castex ha perciò studiato più del commissario Rex e ha fatto i compiti. Annunciando in questi giorni di voler essere truce con l’Islam integralista e di voler dotare la polizia degli strumenti adatti per contrastare le fegatose manifestazioni di piazza francesi. E ad Al Jazeera ha serenamente annunciato di aver messo in tacca di mira la «coalizione dei suoi nemici». Facendo un elenco già citato in sede di insediamento. Essi sono «terroristi, teorici della cospirazione, separatisti e comunisti». A settembre sarebbe già pronto un ruvido disegno di legge a tema.

Bene ma non benissimo, a contare il fatto che, da uomo di destradestra, Castex avrà anche dato l’impressione di voler ribadire la linea politica del suo superiore, il che è normale.

Innestando tuttavia sull’enunciazione di quel programma una foga arcigna che mal si lega con le mani legate che in Francia ha il Primo Ministro. Un po’ come quegli impiegati fantozziani di livello medio alto che possono solo latrare le doti del presidentissimo Duca Conte Lup Mannar. E che sentono di doverlo fare con più foga discepolante di quanto il loro ruolo non richieda. Così, tanto per metter paura ai sottoposti col mutandone ascellare.

E che sui Pirenei ci fossero grossi cani bianchi lo sapevamo dai cartoni della nostra gioventù. Ma che oltre che a badare al gregge riportassero anche il fresbee al pastore ci mancava.

Titolo di studio: bau.

ABDEL AL SISI

Il primo a dirlo fu Teddy Roosvelt: «Per capire cos’è una diga devi stare da entrambi i lati del muro». Un po’ filosofo, un po’ rude geopolitico, il presidente-orso oggi avrebbe fischiettato il motivetto compiaciuto delle cassandre.

Lo avrebbe fatto a sbirciare quello che sta accadendo fra Egitto ed Etiopia a proposito di ‘Rinascita’. Ma cos’è? E’ una diga, un immenso sbarramento sul Nilo che nelle intenzioni dovrebbe restituire all’Etiopia tutta l’acqua che le serve per uscire da uno stato di siccità praticamente secolare. Il progetto è del 2014 e la realizzazione è tutta italiana, dato che a costruirla ci sta pensando la nostra Salini Impregilo, ex Webuild. Le mire etiopi non sono solo pratiche.

Il Paese sta infatti cercando di accreditarsi come nazione che ha imparato a dribblare quel tratto un po’ medioevale che la relega da sempre fra gli stati-sgabuzzino del pianeta.

Il guaio è che le dighe, specie quelle di confine, hanno due facce. E l’altra faccia dell’immensa massicciata di cemento guarda ad un paese che non sta facendo esattamente i salti di gioia: l’Egitto di Al Sisi. Perché l’Egitto non è come l’Etiopia. Lui, stato africano ‘moderno’, lo è già, ma è anche nazione fondata su una storia millenaria che sul calendario spernacchia addirittura Grecia classica e Roma. E quella storia, di faraoni, piramidi e opulenza, naviga da sempre sulle acque del Padre Nilo.

Quel Nilo che per gli egiziani ha un componente tanto identitaria che dividerne corso e utilizzo con l’Etiopia ha fatto diventare idrofobo il loro presidente. Tanto idrofobo che Al Sisi ha invocato un vecchio accordo del 1959, con cui all’Egitto sono riservati 55,5 miliardi di litri cubi di acqua all’anno, non una goccia di meno. E a traino di questa rivendicazione burocratica ha minacciato macelli quando, a fine mese, verranno attivate le prime turbine.

Cosa intendano gli egiziani 2.0 per macelli noi italiani lo sappiamo benissimo, anche a fare la tara alle brutture del caso Regeni.

East African afferma che da due settimane nella base vicino Alessandria è tutto uno svolazzare bullo degli elicotteri d’attacco Hind MI-24 acquistati recentemente dall’Ucraina con la mediazione dell’Arabia Saudita. Sono calabroni infidi, gravidi di missili e armati con cannoncini Shipunov 30, roba che ti ara il marmo. E non è difficile intuire quale tipo di sistema d’arma sia il più adatto per un blitz su grande infrastruttura.

Fra rivendicazioni di prestigio ed interessi economici monstre l’autunno potrebbe regalare al mondo una ‘guerra dell’acqua’ di cui noi del pianeta potevamo fare tranquillamente a meno. Specie noi italiani, che avendo fornito altri giocattolini da war games all’Egitto rischieremmo di vedere un cantiere italiano sbriciolato da armi italiane.

Faraone stai calmino.