Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

NGUYEN PHU TRONG

Tutti a terra, qui qualcuno bara”. Nguyen Trong, leader della Repubblica Socialista del Viet Nam, non è proprio di primo pelo, ma la grinta non gli è mai mancata. Quando perciò ha trovato sul tavolo una dettagliata relazione del CAAV, l’Autorità nazionale per l’Aviazione Civile, studiarsela, trasecolare e latrare un ordine secco è stato un attimo.

Il presidente Nguyen Phu Trong

In quel dossier è infatti contenuto un dato clamoroso sui piloti del Pakistan. E cioè che 270 di essi su poco più di 800 totali hanno un brevetto di volo falso. Nel gruppone poi ce ne sono quaranta che volano con Vietjet Air e Jetsat Pacific, roba nazionale, con gente che fa la furba in casa d’altri insomma.

Un po’ come quando prendi la patente con la compiacenza di qualche maneggione in Motorizzazione o con il placet di qualche medico non immune ai regalini. Solo che qui tutto è portato su scala aerea, con gente che vola a braccio, pilota bestioni da millemila tonnellate a quote quasi stratosferiche e trasporta migliaia di persone al mese. E, particolare tutt’altro che irrilevante, si tratta di cittadini di un Paese che con la sua cellula di Rawalpindi fu base logistica proprio in tema di volo per gli attentati dell’11 settembre.

Il risultato è stata una nota di servizio perentoria a firma del ministro dell’Aviazione civile, roba spartana in lessico ma inequivocabile. «Le compagnie aeree vietnamite sono state invitate a sospendere temporaneamente gli orari dei voli per i piloti di cui sopra fino a nuovo avviso».

Particolare: in Viet Nam, quando ti invitano a fare qualcosa hanno già pronta la soluzione spiccia se quella cosa non la fai. La prima ad abbozzare un ‘però’ è stata proprio la PIA, Pakistan International Airlines.

È la compagnia di bandiera del Paese islamico e lamenta una ‘paralisi’ dei voli con un danno economico gigante. La risposta della massima autorità di Hanoi, che governa si un Paese socialista ma che ha un grip turistico internazionale, è stata di quelle che meriterebbero il paragrafetto d’ordinanza sui libri di storia. «Ce la mettereste vostra madre su uno degli aerei pilotati dai vostri imbroglioni?».

Pakis-Tana.

JARED DANIELS

‘Miami Blue’. Si chiama così perché è accasata in Florida. Però non è una droga sintetica per i mattoidi che frequentano Ocean Drive. E’ una farfalla, una delle più rare e belle del pianeta. Un piccolo lepidottero color cobalto che aveva conquistato il poco invidiabile titolo di insetto più a rischio di estinzione del mondo. Il suo nome scientifico è impronunciabile: Cyclargus thomasi bethunebakeri. Quello della sostanza che l’ha salvata dall’estinzione è invece nome facile: Gatorade.

La farfalla Miami Blue

Calma e gesso. Una equipe di scienziati dell’università di Miami ha tentato un esperimento che, a leggerne la bozza, avrebbe spinto il padre medio a ritirare il figlio da quell’ateneo e spedirlo a fare il venditore porta a porta di bibbie quacchere. Per incentivare le poche centinaia di farfalle rimaste a riprendere i loro svolazzi sulle dune sabbiose della Florida c’era bisogno di due cose. Cose banali ma diventate piuttosto rare nel terzo millennio: fiori per l’impollinazione e sali minerali, di cui tutte le farfalle non possono fare a meno. Sali che si, gli insetti reperiscono dall’urina dei coinquilini in pianeta.

Perciò gli scienziati hanno giocato di sintesi. Come? Creando dei ‘fiori di Gatorade’, a decine di migliaia, e piantandoli in giro nelle zone verdi del ‘Sunshine State’. I ‘fiori’ altro non sono che lunghi bastoncini di legno con un batuffolone di ovatta colorata sull’apice. Che ovviamente è imbevuto della sostanza che più di tutte fra le migliaia testate ha trovato il gradimento delle farfalle. Già, proprio lui: il Gatorade. Perché è salino, perché è anche dolce e perché le farfalle ne vanno matte, più di Bolt.

Inutile dire che quelli di Quaker Oats, l’azienda a trazione Pepsi che lo produce, hanno fiutato l’affarone. Anche perché il nome della bevanda viene proprio da Gator, ‘alligatore’, animale totem della Florida.

Il beverone venne creato nel ‘65 per i giganti del football. Insomma, una liaison troppo ghiotta per non brandizzarla. «I fiori offrono la libertà di nutrirsi senza cercare giardini. Lo stress è ridotto al minimo e, limitando il contatto con gli esseri umani, le farfalle vivono e si riproducono di più». Lo ha dichiarato al Miami Herald il professor Jared Daniels, capo del team che ha fatto il miracolo. Prof che magari non ci ha fatto caso, ma ha praticamente detto che un insetto blu ha trovato la sua personale pillolina dell’amore. Blu pure quella.

Anche Gatorade ti mette le ali.

FLOP

RECEP ERDOGAN

Un tribunale turco ha detto la sua su una questione che ha soprabito religioso ma canotta politica. E cioè su quale debba essere il destino di Haghia Sophia. Che è tornata al culto musulmano. Ripassino di storia veloce veloce. L’immensa e bellissima Haghia venne eretta sotto Giustiniano sulle rovine di una precedente versione ‘smart’ che era stata prima chiesa greco cattolica e poi ortodossa. Venne tirata su come mega basilica simbolo della cristianità.

LA BASILICA DI SANTA SOFIA

Nel 1453 però arrivarono i turchi del sultano Mehmed II che islamizzarono a suon di sciabolate anche le cucce dei cani. Da Costantinopoli di passò ad Istanbul e da chiesa si passò a moschea. Veloce ma non indolore, perché i Turchi Selgiuchidi non erano i paciosi Abbassidi e il Corano lo predicavano sempre sul filo della scimitarra.

Per secoli quel gioiello divenne meta dei musulmani di tutto il mondo. Poi nel 1934 arrivò il Padre della Patria Ataturk che, in piena fregola di modernizzazione laica, chiuse la moschea e salomonicamente, fra quelle colonne azzurre, ci piazzò un museo.

La parte finale della storia è tutta un duello muscolare per restituire Haghia al culto musulmano. E qui entra in gioco lui, Recep Erdogan, il più occidentale dei presidenti orientali o il più orientale dei gerarchetti atlantici. Per accontentare Grecia e Stati Uniti si oppose ai nazionalisti turchi che rivolevano la moschea, ma non diede mai input finale per tenerla come museo o come patrimonio Unesco. In pratica, quello che sarebbe servito era un semplice decreto presidenziale che tagliasse la testa al toro e sottraesse quell’immensa struttura alle letali lusinghe del fanatismo religioso.

Perché se Haghia fosse tornata musulmana i cristiani si sarebbero incazzati. E se i cristiani poi sono gli americani papisti o gli israeliani addio altra guancia. D’altro canto se la basilica fosse tornata addirittura cristiana la Turchia sarebbe esplosa come un’atomica. Questo perché gli integralisti neanche porgono l’altra guancia, semplicemente te la separano dal cranio con il tritolo.

Erdogan però ha solo traccheggiato ed atteso che il ricorso di un’associazione minore arrivasse fino alla Corte Suprema, in modo da non prendersi paternità scomode. Dove sta il guaio? Lo spiega bene ad Al Jazeera Ozturk Yilmaz, membro indipendente del parlamento turco.

«Non è questione di giurisprudenza. Se il governo avesse voluto davvero prendere posizione sarebbe bastato un decreto presidenziale». Come a dire che Erdogan non ha voluto scontentare nessuno. Però oggi che un tribunale gli ha fatto il lavoro sporco annuncia in pompa magna una mega preghiera musulmana ad Hagia per il 24 e gioca a fare il ruffiano nazionalista, più per fregola geopolitica che per fede.

Molto poco presidenzialmente Erdogan si è ibernato in attesa della sentenza. Un giudicato che ha messo la pezza ad un buco che lui proprio non voleva turare.

Pilato ottomano.

BENNY GANTZ

Per carità, tutto quello che fa uno stato sovrano per aumentare la sicurezza dei suoi cittadini è sacrosanto o quanto meno difficilmente censurabile. E soprattutto quello che fa Israele per tenere botta al suo perenne stato di pre allerta militare ha un senso. Al di là di torti e ragioni, lo stato con la stella di David in vessillo si barcamena da sempre e sottocoperta in mezzo a frotte di governi non proprio bendisposti. Roba di confine, che in un soffio puo’ riempirti i cieli di missili.

BENNY GANTZ

Il che significa avere forze armate poco marmittone e molto, ma molto reattive. E sistemi d’arma hi tech all’avanguardia. Detto questo però, l’impressione è che la rotta politica che il premier Netanyahu ha appaltato ai suoi gregari ultimamente si sia fatta troppo bulla. Anche perché il primo ministro sta limitando molto le sue dichiarazioni in attesa che si risolvano i suoi guai giudiziari. E chi ne fa le veci magari esagera.

Pochi giorni fa la Elbyt Sistems ha consegnato alla Israel Aerospace Industries, appaltatore unico della difesa, il nuovissimo satellite militare Ofek 16.

Il coso è stato sparato dritto in orbita da un vettore Shavit, ‘Cometa’, alle 4.00 ora locale dello scorso 5 luglio per una serie di test attivi. In queste ore Ofek ha già collezionato una serie di immagini niente male, come a dire che mentre faccio il rodaggio rendo pure qualche servizio all’intelligence dei Mistaravin a terra.

L’attrezzo è capace di compiere un’orbita bassa intera in 90 minuti ed è un guardone coi contro fiocchi. Le sue capacità di ricognizione elettro ottica ne fanno il satellite spia per eccellenza, il Grande Fratello con le mostrine.

E le dichiarazioni del vice premier Benny Gantz dopo il lancio sono state a tono con le peculiarità di quel segugio elettronico. Senza mezzi termini il militare al governo ha dichiarato al mondo che l’Ofek serve per spiare il programma nucleare dell’Iran. Questo in modo da «poter preventivamente individuare gli obiettivi e neutralizzarli con il massimo dell’efficacia».

Praticamente una dichiarazione di guerra senza telefonate fra gli ambasciatori. Una volta le intelligence di Tel Aviv, se avevano qualche nuovo giocattolino, si guardavano bene dal dirlo al mondo. Oggi lo mostrano come il bicipite tamarro di un palestrato di periferia. E provocano. Giocando alla guerra che gioco non lo è mai stato.

Guapparia mediorientale.

IN MEMORIA DI SREBRENICA (di Giampiero Casoni)

Un detto molto in voga fra i piloti militari di 20 anni fa recitava che ‘Non sei tu che piloti l’F-16, è l’F-16 che pilota te’. Questo perché, al di là degli aforismi da arma aerea, il dato era vero. Nel senso che il caccia multiruolo F-16 venne progettato appositamente per essere un po’ instabile da un punto di vista aerodinamico.

Lo tirarono su così perché una eccessiva stabilità impediva l’agilità di manovra, e uno sputa fuoco come il Flight Falcon doveva rispondere alle sollecitazioni del pilota al millesimo, senza imbarcarsi in recuperi di assetto controllati dal software che avrebbero aperto pericolose finestre di intervento al nemico. Insomma, l’F-16 era un aereo Abarth, un ceffo di alluminio e grafite che a guidarlo lo dovevi sentire con ogni tua fibra. E i suoi piloti erano un po’ gli ‘alfisti’ dei cieli.

Un F-16 Fighting Falcon (U.S. Air Force photo by Staff Sgt. Cherie A. Thurlby)

Il prezzo da pagare per questa iper manovrabilità fu un’autonomia operativa più ridotta negli scenari di guerra vera, dove ogni cabrata è funzionale ad un atto ostile empirico. Fu per questo motivo che l’11 luglio del 1995 quattro F-16 olandesi decisero di tornare alla base dopo aver disegnato grandi otto nei cieli della Bosnia.

Erano rimasti in attesa vana di un 3Go da parte del generale Nicolai, troppo in attesa, e furono costretti a tornare ad Aviano a fare rifornimento. Mentre puntavano il muso a nord ovest, giù in basso i carri armati dell’esercito serbo e le blindo con RPD a brandeggio controllato del battaglione paramilitare Scorpion stavano entrando a Srebrenica, cittadina bosniaco-musulmana. Una sorta di enclave sotto lente degli accordi di Dayton dichiarata dall’Onu difendibile anche con la forza.

Il generale Mladic, con le sue ‘Tigri’ comandate dal macellaio Arkan, si era messo in testa di chiudere una vecchia pratica etnica. E con la benedizione del presidente Karadzic ma non con l’autorizzazione della repubblica, decise di andare a fare il tiro al piccione con tutti gli abitanti maschi della città. Attenzione, non è un errore: il generale serbo va a maciullare tutti gli uomini dai 12 ai 70 anni di Sebrenica dietro input del presidente serbo ma senza che la Serbia, cioè il presidente serbo, sapesse che quello era un massacro premeditato. Lo dice una sentenza del Tribunale Internazionale Penale.

Il memoriale di Srebrenica

La corte stabilì che il genocidio di 8700 persone era imputabile ai singoli, non alla condotta del nazi governo di Belgrado. Fatto sta che, dopo il forfait della caccia aerea, a terra rimasero tre compagnie di Dutchbat olandesi. Era la brigata mobile delle Antille dell’Air Force, veterani simili al nostro 17° Stormo incursori dell’Aeronautica. Non erano pivelli di primo pelo cioè. Eppure non solo non mossero un dito, ma addirittura ripiegarono in gran fretta nella base Onu sicura di Potocari.

A quel punto le prime falangi del battaglione Scorpion ebbero mano facile. Non per combattere, cosa che peraltro sapevano fare benissimo essendo quasi tutti ex speznatz bianchi, cioè addestrati alla russa ma slavi, ma per rastrellare e ammazzare con pignoleria contabile ogni maschio bosniaco in grado di reggersi in piedi.

Il siparietto era agghiacciante: in sede di interrogatorio gli ufficiali inferiori chiedevano al malcapitato, 17enne o vecchio zappaterra che fosse, se era in grado di alzare con un braccio una bomba da mortaio da 81, roba da 3 chili o poco più. Appena il proiettile veniva ovviamente sollevato scattavano due cose: la prova provata, inconfutabile in tragico sarcasmo, che di fronte ai serbi c’era un nemico abile alle armi. Poi la lettura della ‘formula di inimicizia verso il popolo serbo’ . A quel punto, a gruppi di dieci, gli AK.M ‘80 della truppa falciavano via i colpevoli e li cappottavano in lunghe fosse fatte scavare dalle mogli e dalle figlie.

Si, ma colpevoli di cosa? Di essere bosgnacchi, cioè musulmani del sangiaccato, sub materia umana che la Grande Serbia Slava aveva messo in tacca di mira appena l’ex Jugoslavia si era sfaldata.

Ratko Mladic

Le fosse comuni e la calce viva poi coprirono l’orrore, per un po’. Poi arrivarono le sentenze per Karadzic e Mladic con due ergastoli ma nessun risarcimento ai parenti delle vittime. E’ tutt’ora in atto un lungo braccio di ferro giudiziario ma Mladic, secondo il suo avvocato Branko Lukic, sarebbe in fin di vita per un ictus e il fadone rischia di sperdersi in coriandoli beffardi.

E i valorosi soldati olandesi che così gagliardamente andarono in culo alla risoluzione 819 Onu, oltre che a qualsiasi regola di etica ed onore militare? Vennero ritenuti responsabili di non aver aperto le porte della base a tre, dicasi tre, cittadini bosniaci che avevano chiesto rifugio. Delle ragioni degli altri 6mila, quasi tutti donne e bambini che si tirarono via le unghie graffiando il varco, se ne sono perse le tracce.

Erano ragioni piuttosto impellenti, perché i paramilitari dello Scorpion non solo ammazzano con olimpica dedizione, ma stuprano gioiosamente ogni cosa si trovi ad altezza della loro patta, sempre in nome della Grande Serbia, per carità. Il governo, poi dimissionario, di Wim Kok e del generale Van Baal finì sotto accusa in una lunga trafila giudiziaria internazionale.

Una manfrina che l’anno scorso ha stabilito che l’Olanda fu responsabile solo al 10% del massacro di Srebrenica.

Ecco perché poi il restante 90% viene celebrato in pompa così magna ogni anno da tutta la comunità internazionale. Perché questa, più che salda memoria storica, è ipocrita espiazione.

error: Attenzione: Contenuto protetto da copyright