Dandini: «Noi giornalisti non siamo stati capaci di difenderci»

di MARCO DANDINI
Giornalista Professionista

Caro Alessio,

ho letto con attenzione e curiosità il tuo pensiero sul rapporto che intercorre tra politica e giornalisti. Un pensiero che, chiariamolo subito, condivido in ogni sua riga. Non per piaggeria. Facciamo entrambi parte, insieme a tanti altri, di quella generazione di cronisti (non a caso uso questo termine) che è cresciuta a “pane e polvere” in questo ambiente. Sudore della fronte e maniche di camicia “raffociate”. Senza telefonini o fotocamere digitali. E sappiamo cosa abbia significato.

Al tempo stesso le tue riflessioni ne hanno scatenate altre dentro di me. Non fosse altro perché sono stato abituato ed educato a pensare che non sempre le colpe risiedano da una parte. Credo che riconoscere i propri limiti possa servire a migliorarsi.

Andiamo con ordine. Parlando su scala nazionale, da anni mi stupisce che molti degli onorevoli deputati che siedono sui “sacri” scranni si vantino nei propri curriculum di essere iscritti al nostro Ordine professionale. Mai però che si sia visto un impegno comune a tutela (laddove siano motivati) degli interessi della nostra categoria.

Ma ormai, alle soglie dei 50 anni, non mi meraviglio più di nulla. Non mi meraviglia il fatto che in Ciociaria, come in tutte le altre province, stiamo pagando un abbonamento Rai senza che il territorio abbia un corrispondente che possa parlare di noi nei tg regionali. E la classe politica, da anni, non si è mai interessata di chiedere perché.

Tornando al locale… Fare il nostro mestiere a livello provinciale è molto, ma molto più complicato e difficile che altrove. Il rapporto tra gli interlocutori spesso è legato ad una conoscenza personale che rischia di limitare la capacità obbiettiva di analisi e critica. Da una parte comprensibili e umane contaminazioni legate appunto ai rapporti personali. Dall’altra, quella più dura, sembra manchi l’educazione al rispetto della diversità di opinioni e pensieri legati ai ruoli che ognuno di noi ricopre. Come se alla fine secondo qualcuno tutto dovesse per forza trascendere nel personalismo. Ma non è così. Tu fai il politico: se fai bene scriverò che hai fatto bene. Se fai male ti critico. Cosa c’è di male? Ma è un discorso di educazione, culturale sul quale poco possiamo fare.

Il problema vero in questo senso, diciamocelo chiaramente, è stato da sempre il “sistema”, a livello locale e nazionale. Lì sono nati gli equivoci. Equivoci che ci hanno visti impotenti a reagire. Quel “sistema” che vedeva la Politica al centro anche di provvedimenti che permettessero al nostro settore di campare. Usufruendo, per esempio, di leciti contributi utili ovviamente alla sua sopravvivenza. E questo modo di fare ha fatto degenerare tutto, impoverendo spesso il potere di autorevole critica delle nostre penne e delle nostre tastiere. Diciamocela tutta. E questo ha permesso purtroppo a qualcuno di credere di poter muovere i fili. Questo ha costretto altri a pensare di farli muovere quei fili, senza voler e poter fare diversamente.

Ecco allora nascere quell’equivoco che ha contraddistinto i rapporti tra i protagonisti. Con il grave limite, a mio modestissimo parere, proprio del nostro settore incapace di pretendere il rispetto del proprio ruolo e delle regole. A partire dalla quotidianità. Prendiamo come esempio quei famosi comunicati stampa ai quali tu, Alessio, hai fatto riferimento affermando che spesso vengono cestinati senza che nessuno si chieda perché. Negli “uffici stampa” istituzionali e negli uffici politici deputati alle relazioni con i media, spesso siedono personaggi che con il nostro mondo non hanno nulla a che fare. E mai che nessuno si sia chiesto di porre delle regole che tutelassero la dignità del nostro ruolo e della nostra professione in questo senso. Sai quanto me, Direttore, che un comunicato stampa è anche e soprattutto una “fonte”. Che in quanto tale deve essere credibile e certificata (soprattutto se vogliamo pararci le spalle in Tribunale). Ma non c’è mai stata nessuna pretesa, dal nostro settore, che a firmare quelle righe fossero colleghi regolarmente iscritti al nostro Ordine e autorizzati a ricoprire quel ruolo. E quando ci sono colleghi iscritti, spesso non sono tutelati da forme contrattuali rispettose del ruolo che ricoprono. E questo sembra accadere solo nel nostro mestiere.

Ti faccio una sana e complice provocazione nel tuo ruolo di Direttore (e dall’alto dell’amicizia che ci contraddistingue): da domani pretendi la firma sui comunicati che ti arrivano, con nome e cognome che attesti l’iscrizione all’Ordine di chi li divulga. Senza quella firma, alzi la cornetta e la pretendi. E quello che spesso è solo un “bla bla” di sterile propaganda non appare.

E poi ti faccio un invito: sempre domani, mettiamoci un camice bianco ed entriamo in ospedale per fare i medici… Ci denuncerebbero all’ingresso. In corsia nemmeno ci fanno arrivare. Oppure preferisci una toga e ce ne andiamo a difendere qualche imputato per rapina che poche ore prima abbiamo trattato in cronaca? Processerebbero prima noi. Sempre all’ingresso, senza arrivare in aula.

Ma nel nostro mondo non è così. Solo nel nostro mondo sembra. Nessuno che si sia mai indignato. Nessuno che abbia mai chiesto chi-scrive-cosa e per conto di chi. Nessuno che avesse preteso rispetto per il ruolo dei nostri colleghi. Una difesa, chiariamoci, della professione e non ad personam. Si è diffuso il pensiero comune che chiunque voglia può fare questo mestiere. Ma non è così. Lo sai benissimo anche te, Alessio.

Il nostro limite è stato quello di essere stati costretti spesso ad accettare di tutto per campare. Perché non c’erano le regole. Quelle regole che però il nostro mondo doveva pretendere che ci fossero e che venissero rispettate. Le “firme”, in ogni ambito e in ogni ruolo, dovevano essere autorizzate e certificate. E con precisi obblighi contrattuali. E’ accaduto che spesso le scelte sul personale da impiegare avvenissero per convenienza economica. Perché quella scelta costava di meno. Ecco allora che pian piano ci ha rimesso anche la qualità. Di conseguenza la debolezza di analisi e critica. La capacità di ricerca e osservazione della realtà. Il suo racconto.

La verità è che non siamo stati capaci di difenderci, Alessio. Abbiamo permesso che tante cose accadessero. In fin dei conti perché conveniva alle parti. Ora cominciamo a pagarne le conseguenze.

Fare il giornalista è faticoso. Noi lo sappiamo bene vero Alessio? Ogni giorno hai un motivo per andare avanti e mille per lasciar stare. Ma se lo trovi quell’unico motivo, dentro di te, allora capisci che quella è la tua vita. Quel fuoco sacro che ti brucia l’animo e senza il quale saresti condannato ad una vita glaciale. Fredda.

Per questo motivo mi chiedo cosa potevamo fare anche noi e cosa non abbiamo fatto realmente. Con una certezza: che dagli errori si può imparare. Si deve imparare. Di tempo per recuperare ne abbiamo. Ma dobbiamo essere capaci di parlare al plurale. Con quello spirito di gruppo che spesso è mancato. Difendendo la nostra professione perché, come dici te Alessio, per costruire una firma credibile ed autorevole serve il sacrificio di una vita. E nessuno deve permettersi di umiliarla.

Io ho vissuto e sto vivendo per questo. Come te. Come tanti altri.

Con la stima e l’affetto di sempre, Marco.

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